mercoledì 27 luglio 2016

Gli Stati Uniti dell'ansia


I giorni della paura sono ormai alle nostre spalle. Viviamo nel precario impero dell'ansia.

Partiamo da Internazionale che pubblica un articolo intitolato "vi racconto la brutta aria che tira a Milano". In breve la cronaca di un incidente: una cittadina fermata e identificata dalla polizia ferroviaria per aver - a suo dire - fatto una semplice domanda dopo aver visto un immigra-barbone-nonsisabenechi allontanato malamente dalla Polfer. 

L'articolo evidenzia il disagio del cittadino di fronte alle forze dell'ordine e soprattutto di fronte ad una restrizione della libertà di movimento per una contestazione non formulata. Che tradotta in altre parole si chiama genericamente "controllo". Infatti alla scrittrice non viene accusata di nulla di specifico, e questo è però il nocciolo kafkiano (perdonami Franz) del suo resoconto. Un racconto giocato sull'impressione del sopruso e sui timori di un abuso percepito più che subìto. Con l'allusione, poco sottile, al fatto di essere donna indifesa in balìa di maschi in divisa. Ma la percezione è una modalità dell'essere, uno sguardo soggettivo intriso d'emozione espresso dall'individuo e pertanto mi pare difficile estenderlo in un giudizio che abbraccia tutto il sistema. Cosa succede a Milano? Gli squadroni della morte si sono infiltrati nella Polfer? Oppure qualche agente aveva i coglioni girati dopo l'ennesima discussione con il randagio di turno? Da qui immagino l'idea del titolo "la brutta aria". Che cosa è quest'aria? Polveri sottili? Ozono? No, si suggerisce poca democrazia. Diritti vacillanti. Gemiti da torture e violenze nascoste dietro l'angolo.

Certo, essere fermati per aver chiesto "che cos'è è successo?" E ricevere in cambio un contro interrogatorio è spiacevole. Ma - ed è qui che si apre la differenza tra un racconto di taglio giornalistico e un racconto da "mio caro diario" - manca del tutto la controparte, il tentativo di una visione di insieme. Se ti importa davvero capire e far sapere cosa è successo ti informi, cerchi altre fonti, torni, chiedi ad altri e soprattutto guardi chi, cosa, come. E poi scrivi. Un articolo-denuncia è fatto di questo. E nella stesura si può anche usare il condizionale per le parti oscure e non chiarite, ma devi essere onesto e spiegare questo è quello che ho visto e sono riuscito a sapere: non è tutta la storia.
Rappresentare un dialogo interiore di fronte all'autorità e a chi la rappresenta (con i suoi limiti e i suoi dubbi) per poi attaccarci l'etichetta dell'aria che tira a Milano (Tutta Milano, diamine), non è denuncia sociale e neppure giornalismo in presa diretta, piuttosto è uno sfogo emotivo che non aggiunge informazione ed evoca soltanto inquietudini vaghe, utili a far crescere la diffidenza, a trasmettere il disagio. 

Si tratta allora di una prova di empatia? Creare empatia sulla notizia? Ma ci vorrebbe una notizia come punto di partenza. E quindi stiamo parlando di arte o informazione?  
E questo ci porta al vero tema, che non è a mio parere l'equilibrio tra diritti e doveri, tra l'essere controllati o schiacciati da chi governa, bensì l'uso dell'ansia. L'ansia che oggi domina la comunicazione - specie quella digitale e televisiva - e crea tempeste mediatiche che hanno sempre più presa nel reale pur mancando di consistenza. Si parte per la guerra santa alla difesa di un'opinione che alla fine non è altro che un'impressione, la storia di un minuto.

Qualche anno fa l'autrice dell'articolo avrebbe parlato dell'episodio ai suoi conoscenti, forse avrebbe scritto una lettera di protesta al giornale raccontando il fatto e innescando un'inchiesta, chiamando qualcuno a rispondere. Oggi magari ha twittato le sue emozioni a caldo ad un caporedattore, ha fatto un post al giro degli amici e le hanno chiesto un articolo. Articolo che, per quanto mi concerne, è una bella mongolfiera: colorata, ma piena d'aria calda. Ed è così che finirà dopo aver fatto il giro del web, disseminando scazzi e reciproche accuse.

Personalmente sono con lei, e comprendo tutto il suo disagio, accentuato dal fatto di essere donna in un mondo che si finge tollerante ed emancipato, invece...(woman is the nigger of the world, cantava Lennon e non abbiamo fatto passi avanti). Posso dire anche che episodi simili sono capitati anche a me: fermato in una strada periferica a notte fonda e scandagliato fino all'ultima attribuzione di punti fragola. Ma una "disavventura" non fa uno stato di polizia.

Quando si incappa in un controllo delle forze dell'ordine la reazione dell'italiano medio di solito non è "fanno il loro lavoro, meglio così, mi sento sicuro", bensì "perché proprio a me? Cosa ho fatto di male? Perdono tempo con me invece gli altri...". Ma naturalmente quando succede il botto, ossia l'accoltellamento, la strage, l'attentato, si levano gli ululati: dove sono le forze dell'ordine? Dove sono i controlli? Siamo nel far west! Invasione! Frontiere chiuse! Bombe atomiche! E via dicendo.
Si viaggia sull'epidermico, sul velo del superficiale tatuato di simboli che non ci appartengono e artificialmente gonfiato da muscoli da parata, che poi è il motivo tanta tensione inutile, tanta adrenalina per nulla, testosterone per chi non può (e non vuole) permettersi la fatica di un ragionamento. I social, e in particolare Facebook, sono inoltre il media ideale per diffondere questo genere di superficialità: messaggi immediati e impalpabili, rapidi nella diffusione e di lunga persistenza. Il motore di tutto ciò non è la ricerca della verità, ma il proliferare dell'ansia. Ansia, la sorella disturbata dell'euforia, giusto due gradini sotto il terrore.

Un tempo giocavo con il concetto degli USA, gli Stati Uniti dell'amnesia, la terra del sogno realizzato perché si nutre di immaginari auto-fabbricati frantumando la storia. Ora siamo oltre, la memoria viene tenuta ben custodita nei server, sepolta sotto tonnellate di dettagli utili nella loro precisione a confondere il senso complessivo delle cose. Il ricordo è stato separato dall'azione perché questa sia libera di ripetere lo sbaglio. La star dei nostri giorni è l'ansia: della perdita, del cambiamento, dell'instabilità e della routine. L'ansia del risultato, della performance, dell'approvazione e del consenso. E' il riflesso della nostra insicurezza interiore e pertanto non potrà mai essere placata finché si vive a pelle, sulla pelle degli altri. 

Benvenuti negli Stati Uniti dell'ansia: la prima e unica (im)potenza globale, divisa nelle reazioni, unita nel disagio.