sabato 5 ottobre 2013
Cuzco come Santiago
E' cominciato con un'indagine su un qualche tipo di reato. Rapimenti forse. Anche se in realtà dovevo coprire una sbronza di Fernet Branca in un locale tipo Mc Donald. Mi ero risvegliato in macchina in mezzo alla campagna mantovana e quando avevo raggiunto la prima casa nota - quella dei nonni paterni - avevo trovato una statua di ebano a grandezza naturale con lineamenti e ornamenti da antico italico che si spacciava per mio conoscente sollecitandomi a prepararmi per una cerimonia - un matrimonio? - giacché mancava "solo un'ora".
Alla fine non ci sono andato e ho iniziato a curiosare nei pressi del mio inatteso parcheggio. Come e perché ero finito là? Perché non ricordavo nulla? Cosa era accaduto in quel black out? Il sentiero conduce a una baracca accanto un albero. La ricordo bene quella costruzione quadrata dalle assi nere dove mio nonno custodiva attrezzi d'ogni genere. Mentre mi avvicino la baracca diventa uno chalet, poi qualcosa di più complesso, più alto e semi coperto da fronde di alberi.
Mentre mi aggiro attorno alla costruzione vedo arrivare due ragazze in pantaloncini corti con zainetti sulle spalle dai quali sporgono ciuffi di verdure e cime di baguette. Hanno l'aria di turiste, anzi lo sono. Le invito a "fare attenzione" e loro mi invitano a entrare in quello che si trasforma in un ostello sugli alberi. Dietro la facciata di legno c'è un piccolo cortile col pavimento d'assi annerite dal catrame. Si sale con una scala oppure usando un montacarichi azionato da contrappesi. Una stretta passerella con sostegni a prova di vertigine porta alla reception. Scopro così che esiste un incredibile turismo delle case sugli alberi.
E tra una vertigine e l'altra mi ritrovo in montagna, il clima è andino: sole che pela e vento secco che gela. La luce però è autunnale e si spande sui giganteschi declivi montani che sembrano nascondere piramidi a gradoni cosparse d'erba ingiallita. Distogliendo lo sguardo traballante dalle vallette verdi dove sono sprofondati i fiumi d'acqua bianca, glaciale, mi arrischio su un percorso senza sentieri. Accanto a me sento il parlottare di altri turisti in giacche a vento e larghi cappelli. La parete però si fa troppo ripida e ad ogni passo incespico sopra rocce instabili, sassi dagli spigoli taglienti, non ancora smussati dal tempo, rotolano giù. Mi aggrappo agli sterpi e guadagno il piazzale lastricato da blocchi di pietra: autobus, capannelli, chioschi di cibo caliente.
Subito mi aggrego a una comitiva che si inoltra in una galleria commerciale dalla facciata in finto stile Inca che fa tanto Gardaland con le sue liane d'edera plasticata. Dentro corridoi di finto marmo e le solite boutique da duty free aeroportuale. C'è una porta a bussola che mi attira, è lì che il flusso turistico deve compiere una tappa obbligata. La guida spiega che è la ricostruzione di una serie di vecchi hotel di Santiago: qui suonava l'orchestra e d'estate si tenevano feste per gli ospiti.
Il senso non mi è chiaro, mi guardo attorno: sulle panchine c'è un gruppo di vecchi emo. Grassi, sfatti dentro le magliette nere, brandelli di capelli rasati e bruciati dalle troppe tinte. Mi guardano cercando di ricordare come si sorride, persi dietro qualche strofa di canzone. Piluccano patatine comprate da un bar gestito da baffetto dalla pelle scura che attende le ordinazioni dall'ondata di turisti senza troppe aspettative.
Da qualche altoparlante nascosto viene diffusa una vecchia melodia da orchestra per party sull'erba. Il vento agita mulinelli di foglie secche
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