giovedì 30 gennaio 2014
Sordido cinefilo e autobus volante
Il traffico mattutino riprende vigore verso mezzogiorno. Io sono reduce da uno strano incontro con un critico cinematografico/regista che voleva essere intervistato nella sala di un cineclub simile a un night. Anzi quando questo personaggio che somigliava ad un giovane Carlo Giuffrè con occhiali a montatura nera, giacca con panciotto e cappotto in simil cammello, è stato abbordato a una ragazzona di dubbia identità, ho avuto la netta impressione di trovarmi in un locale notturno. A lato della sala c'era il bancone del bar e il solito barista in giacca bianco panna intento a strofinar bicchieri. Più che un quadro la scena sembrava un poster luminoso. Il cinecritico si era seccato - o forse era imbarazzo per la disinvoltura con cui la ragazza dalle spalle squadrate aveva tentato di accalappiarlo, magari se non ci fossi stato io... - e dopo essersi allontanato in fondo alla fila delle poltroncine aveva sdegnato ogni domanda facendo naufragare l'intervista. Per così poco... proprio lui che "aveva cominciato con approcci equivoci negli scantinati, fotoromanzi da pochi soldi, filmetti autoprodotti e infine era diventato una star di Axn" come recitava l'introduzione ufficiale del suo spazio televisivo.
Così sono uscito con l'intenzione di lasciare la città. Scivolavo veloce per la strada seguendo i binari dei tram ed ecco che ad un bivio mi sono trovato imbarcato su un autobus. Avevo guadagnato anche un posto nella fila dietro il conducente: una giovane donna in divisa, capelli biondo sporco raccolti sotto il berretto con visiera. Il bus in città sembra avere una corsia privilegiata, le auto si scansano non appena si avvicina, non c'è il rischio di restare imbottigliati. Ma dopo un incrocio impegnato da lavori in corso veniamo deviati su una carreggiata esterna a quella principale, che comunque scorre parallela alla via principale. A terra si vedono piastre metalliche, grate, cavi e binari, operai con elmetti e pettorine bianche che trafficano dentro le trincee dei sottoservizi. Sprizzano scintille di saldatori sotto i cavalletti che delimitano le aree di lavoro a rischio. Ma l'autobus va, e prende velocità. La cosa mi allarma un poco anche se la conducente e gli altri passeggeri sono perfettamente tranquilli, percepisco addirittura una atmosfera giocosa da gita scolastica: si chiacchiera della meta non del viaggio.
Io però non riesco a distogliere lo sguardo dal fondo stradale e mi stupisco che il bus non sobbalzi quando affronta le giunture delle lastre metalliche o i cavi stesi sulla carreggiata. Sospensioni miracolose o stiamo correndo agganciati a un binario preciso? Non ho l'occasione di chiarire perché l'autobus inizia a scartare verso destra con decisione crescente: andiamo fuori strada mi dico. L'autobus infatti si spinge progressivamente verso i margini della strada che - con un brivido - mi rendo conto costeggia una scogliera a strapiombo. Lo spostamento è inesorabile, vedo le linee del cantiere che si allontanano veloci e un rumore di rocce sgretolate mi avverte che le ruote sono della fiancate destra sono ormai oltre il precipizio. Ma miracolosamente siamo in equilibrio, forse è la velocità a tenerci in bilico. Mi alzo in piedi e scopro che mi sono ingannato: sono le ruote della fiancata sinistra a a urtare le rocce. Siamo quasi del tutto in aria. Cerco di sporgermi e vedo la scogliera, una lunga parete bianca di gesso lambita dal mare azzurro frantumato dal sole in migliaia di riflessi. Ma il momento della caduta non arriva mai: solo un sussulto quando ci stacchiamo completamente da terra. Immagino che al bus siano spuntate delle ali, però senza propulsione sospetto che il viaggio sarà breve. I passeggeri parlottano più intensamente godendosi lo spettacolo intorno, io cerco di figurarmi su quale lato precipiteremo e come assorbire meglio l'impatto: in piedi aggrappato ai sostegni o seduto come in aereo?
All'orizzonte scorgo un lembo di terra. Forse ce la facciamo ad atterrare. E' un prato di verde brillante. La conducente all'improvviso si alza dal posto di guida e inizia a parlottare al telefono. Ma come proprio nel momento cruciale? Forse c'è un pilota automatico. Ma no, vedo il solito volante e i pulsanti apri-porte. Attorno a me vedo studenti esageratamente disinvolti, forse per loro è un tragitto abituale, rischiare la vita una banale routine. La conducente intanto discute con un'amica dei fatti suoi: una storia complicata con un uomo che non sa se perdonare o meno. Faccio fatica a seguire finché il prato non inizia a scorrere sotto il fondo del bus: perlomeno non finiremo distrutti sugli scogli. Ora si pone il problema dell'atterraggio. Ma è un problema solo per me. L'autista tranquilla saluta l'amica e si rimette al posto di guida, pratica una dolce sterzata e l'autobus rallenta progressivamente fino a fermarsi su una piazzola asfaltata. Una pensilina affollata da altri passeggeri in attesa ai margini del prato fa capire che siamo giunti a destinazione. Le porte si aprono e i ragazzi zainati si precipitano fuori vociando allegri.
sabato 4 gennaio 2014
Le grazie e la catastrofe dei rettili giganti
Da quello che ricordo entro in questo grande magazzino che pare una di quelle grosse rivendite di abbigliamento extra centro commerciale. Corsie zeppe di giacche e giacconi, scaffali carichi di maglioni e pantaloni, berretti e sciarpe. Ogni cosa è disposta a modo e la clientela non manca. Anche io mi metto a curiosare pur non provando la necessità dell'acquisto. Ma ben presto noto che ogni maglione, ogni piumino ha una sua storia. Nessuna dietrologia sociale, bensì merchandising: i capi ricordano con stemmi e stile un episodio di una saga fantascientifica che è ambientata prima del primo episodio di Guerre Stellari. Un film che fatico a focalizzare, anche se sono perfettamente convinto della sua esistenza.
Giovani commesse fanno da cicerone illustrando pregi del prodotto e significati immaginifici e inoltre sopra ogni scaffale - a maggior chiarimento - ci sono delle piccole teche che contengono microdiorami con le scene clou: duelli dei protagonisti, paesaggi alieni, struggenti addii a bordo di astronavi e feste in sontuosi palazzi decorati di stucchi d'oro e dignitari in alta uniforme. Ammiro l'arte però la mia ignoranza della trama - resta avvolta in una nebbia che fa emergere sprazzi di melodie, navicelle brunite e gente in tunica bianca - pesa sulla decisione d'acquisto.
Mentre mi dirigo alle casse e quindi all'uscita, considero distrattamente dei portamonete di legno intarsiati con le mappe di mondi inesplorati. In quel frangente non mi sfugge la mossa di un giovinastro con la giacca da ussaro che, mano lesta, infila un berretto di feltro nero sotto la falda penzolante dalla spalla. Si accorge che l'ho visto e per qualche istante esita con un sorriso spiegazzato in faccia, indeciso se proseguire nel reato. Cerco con lo sguardo una commessa: una biondina dai capelli lisci e le labbra struccate sotto il naso lungo. Subito fa per accorrere come se le avessi domandato consiglio, ma con un cenno della testa la dirotto sul giovinastro. L'occhiata di fiamma della ragazza - avvampata anche nell'incarnato - lo fa sciogliere come cera e sghignazzando d'imbarazzo rimette il berretto al suo posto.
Siamo fuori dal negozio. Siamo: io, la bionda commessa e altre due colleghe. Una mora dai capelli corti è molto attraente. Indossano vestiti estivi, cotone bianco e fiori stampati. Siamo sotto il sole lungo una passeggiata che sa di mare. Ci muoviamo sull'erba di uno stretto giardinetto pubblico attraversato da percorsi per skaters. Forse siamo in cerca di una panchina. Nel frattempo le tre ragazze unite come da un invisibile anello mi si fanno incontro, si propongono in alternanza come dei proiettili nel tamburo di un revolver. O, peggio, come la selezione dei personaggi di un picchiaduro. Ognuna ondeggiando la testa sul collo con fare lezioso da sirena snocciola quesiti esistenziali - la felicità, l'amore, la serenità - e io come un giovanotto dalla saggezza fresca conio offro risposte intrise di poesia e umorismo. Credo che l'obiettivo sia centrato quando ridono.
All'improvviso una grossa nuvola di polvere si solleva all'orizzonte, a sud, in fondo alla spiaggia urbanizzata dalle torri albergo che fa tanto Rio de Janeiro. In prima battuta si pensa ad un repentino rovescio del tempo: un temporale di stagione. Ma le nuvole nere non vengono dal cielo, crescono dalla terra. Il vento trasporta sabbia e detriti. L'orribile verità si manifesta quando uno dei palazzi si sbriciola davanti a noi e dalle pareti inghiottite dal crollo sbucano le fauci di un grappolo di giganteschi serpenti.
Se non stessi assistendo alla scena penserei di trovarmi sul set di un film fantacatastrofico. Ma ancora non sono persuaso e così mi avvicino al chiosco di un bar, c'è una televisione sintonizzata su un canale di news 24 ore. Stanno trasmettendo il dramma in diretta. Un elicottero riprende i serpenti ciclopici mentre sfasciano gli edifici in riva al mare con una furia che rivela una sorprendente determinazione. Vogliono proprio buttarli giù, raderli al suolo. Subito mi viene in mente che la salvezza potrebbe essere nell'acqua: simili serpi non possono avere un buon rapporto con il mare. Sto per proporre la fuga alle ragazze quando lo schermo rivela un nuovo orrore: acquattato in acqua bassa un gigantesco alligatore albino fa strage di bagnanti. I mostri procedono in tandem, uno abbatte e l'altro divora. Non c'è scampo. Vogliono fare tabula rasa.
Tutto mi sembra così assurdo. Mi sento schiacciato dall'enormità del disastro, tutti i dolci pensieri di prima appassiti di botto. Un solo sollievo: l'evidente sproporzione della minaccia mi libera da responsabilità e in una certa misura anche dai rimpianti. Il sospetto di essere immerso in una fiction però non si spegne: siamo forse dentro la storia scritta da qualcun'altro, non certo in qualità di protagonisti, ma semplici comparse sacrificabili. Mentre la terra e squassata da colpi tremendi e la polvere graffia la faccia, mi acquatto con le ragazze in attesa della fine o... di un copo di scena.
Foto by Kyl
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