sabato 4 gennaio 2014

Le grazie e la catastrofe dei rettili giganti


Da quello che ricordo entro in questo grande magazzino che pare una di quelle grosse rivendite di abbigliamento extra centro commerciale. Corsie zeppe di giacche e giacconi, scaffali carichi di maglioni e pantaloni, berretti e sciarpe. Ogni cosa è disposta a modo e la clientela non manca. Anche io mi metto a curiosare pur non provando la necessità dell'acquisto. Ma ben presto noto che ogni maglione, ogni piumino ha una sua storia. Nessuna dietrologia sociale, bensì merchandising: i capi ricordano con stemmi e stile un episodio di una saga fantascientifica che è ambientata prima del primo episodio di Guerre Stellari. Un film che fatico a focalizzare, anche se sono perfettamente convinto della sua esistenza.

Giovani commesse fanno da cicerone illustrando pregi del prodotto e significati immaginifici e inoltre sopra ogni scaffale - a maggior chiarimento - ci sono delle piccole teche che contengono microdiorami con le scene clou: duelli dei protagonisti, paesaggi alieni, struggenti addii a bordo di astronavi e feste in sontuosi palazzi decorati di stucchi d'oro e dignitari in alta uniforme. Ammiro l'arte però la mia ignoranza della trama - resta avvolta in una nebbia che fa emergere sprazzi di melodie, navicelle brunite e gente in tunica bianca - pesa sulla decisione d'acquisto.

Mentre mi dirigo alle casse e quindi all'uscita, considero distrattamente dei portamonete di legno intarsiati con le mappe di mondi inesplorati. In quel frangente non mi sfugge la mossa di un giovinastro con la giacca da ussaro che, mano lesta, infila un berretto di feltro nero sotto la falda penzolante dalla spalla. Si accorge che l'ho visto e per qualche istante esita con un sorriso spiegazzato in faccia, indeciso se proseguire nel reato. Cerco con lo sguardo una commessa: una biondina dai capelli lisci e le labbra struccate sotto il naso lungo. Subito fa per accorrere come se le avessi domandato consiglio, ma con un cenno della testa la dirotto sul giovinastro. L'occhiata di fiamma della ragazza - avvampata anche nell'incarnato - lo fa sciogliere come cera e sghignazzando d'imbarazzo rimette il berretto al suo posto.

Siamo fuori dal negozio. Siamo: io, la bionda commessa e altre due colleghe. Una mora dai capelli corti è molto attraente. Indossano vestiti estivi, cotone bianco e fiori stampati. Siamo sotto il sole lungo una passeggiata che sa di mare. Ci muoviamo sull'erba di uno stretto giardinetto pubblico attraversato da percorsi per skaters. Forse siamo in cerca di una panchina. Nel frattempo le tre ragazze unite come da un invisibile anello mi si fanno incontro, si propongono in alternanza come dei proiettili nel tamburo di un revolver. O, peggio, come la selezione dei personaggi di un picchiaduro. Ognuna ondeggiando la testa sul collo con fare lezioso da sirena snocciola quesiti esistenziali - la felicità, l'amore, la serenità - e io come un giovanotto dalla saggezza fresca conio offro risposte intrise di poesia e umorismo. Credo che l'obiettivo sia centrato quando ridono.

All'improvviso una grossa nuvola di polvere si solleva all'orizzonte, a sud, in fondo alla spiaggia urbanizzata dalle torri albergo che fa tanto Rio de Janeiro. In prima battuta si pensa ad un repentino rovescio del tempo: un temporale di stagione. Ma le nuvole nere non vengono dal cielo, crescono dalla terra. Il vento trasporta sabbia e detriti. L'orribile verità si manifesta quando uno dei palazzi si sbriciola davanti a noi e dalle pareti inghiottite dal crollo sbucano le fauci di un grappolo di giganteschi serpenti.

Se non stessi assistendo alla scena penserei di trovarmi sul set di un film fantacatastrofico. Ma ancora non sono persuaso e così mi avvicino al chiosco di un bar, c'è una televisione sintonizzata su un canale di news 24 ore. Stanno trasmettendo il dramma in diretta. Un elicottero riprende i serpenti ciclopici mentre sfasciano gli edifici in riva al mare con una furia che rivela una sorprendente determinazione. Vogliono proprio buttarli giù, raderli al suolo. Subito mi viene in mente che la salvezza potrebbe essere nell'acqua: simili serpi non possono avere un buon rapporto con il mare. Sto per proporre la fuga alle ragazze quando lo schermo rivela un nuovo orrore: acquattato in acqua bassa un gigantesco alligatore albino fa strage di bagnanti. I mostri procedono in tandem, uno abbatte e l'altro divora. Non c'è scampo. Vogliono fare tabula rasa.

Tutto mi sembra così assurdo. Mi sento schiacciato dall'enormità del disastro, tutti i dolci pensieri di prima appassiti di botto. Un solo sollievo: l'evidente sproporzione della minaccia mi libera da responsabilità e in una certa misura anche dai rimpianti. Il sospetto di essere immerso in una fiction però non si spegne: siamo forse dentro la storia scritta da qualcun'altro, non certo in qualità di protagonisti, ma semplici comparse sacrificabili. Mentre la terra e squassata da colpi tremendi e la polvere graffia la faccia, mi acquatto con le ragazze in attesa della fine o... di un copo di scena.


Foto by Kyl

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