Visita alla Fondazione Joan Mirò
Il mistero in Mirò è tanto luminoso e colorato che non ha bisogno delle consuetudini dell'oscurità. Si manifesta con la gentilezza criptata della forma, sagome che hanno la piana determinazione del fatto compiuto e portano in sè la loro giustificazione. Il mistero sulla tela di Mirò appare come un codice geometrico ancora da decifrare, ma privo di toni minacciosi: è la manifestazione di una verità risaputa ma non ancora soppesata nella sua reale profondità. Come un cielo di notte, come il bagliore di una stella, come una donna.
Nei quadri del 1917 Mirò abbandona il figurativo con un botto: la frantumazione delle coordinate spaziali. Esemplare come abbia saputo spezzare l'asse cartesiano della rappresentazione di Carrer de Pedralbes. Pochi giorni dopo mi arrampicavo anch'io per quella strada, come la protagonista rapita in quel frammento circolare di tempo-spazio, forse nell'inconscio tentativo di trovarne la via d'accesso.
Nel disegno preparatorio di una testa scopro la stessa impostazione geometrica che mi ha incuriosito nel museo di storia di Barcellona: una pietra d'epoca romana solcata da un reticolo di righe usate per una sorta di evoluzione del gioco del tris. Difficile che l'autore ne abbia tratto ispirazione. Più semplice un'altra considerazione: la grafica, l'arte non possono prescindere dal sottile piacere del gioco.
In effetti per tradurre l'opera di Mirò occorre lo stesso approccio riservato ai graffiti rupestri lasciati da Cro-Magnon e Neanderthal nelle grotte della Cantabria: una scrittura figurativa costruita sulla ricorrenza simbolica. Le sequenze di cavalli selvaggi, le mandrie di bisonti e i cervi maestosi che adornano le umide pareti come preistoriche cattedrali rispecchiano gli elementi base delle creazioni dell'artista catalano: la stella, la donna, l'uccello. La natura scomposta nelle sue costituenti fondamentali che afferra lo sguardo e infonde primordiale meraviglia.
Barcellona giugno 2011
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