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Dopo un'incresciosa sosta in una libreria al piano interrato di un complesso commerciale durante la quale ho cercato di evitare il contatto - persino lo sguardo - di noti soggetti negativi, mi preparo a liberare il campo. Afferro un libro su Napoleone (inserito tra le pagine c'è un pieghevole che pubblicizza un incontro sul condottiero corso) e mi precipito alla cassa con manovra zigzag. Davanti al commesso giovane estraggo un portafogli sigillato con chiusure a strappo, peccato che l'interno sia fradicio: estraggo due biglietti da cento (cento cosa?!?), uno dei quali addirittura bucato, e due da dieci. Li stendo sul bancone speranzoso e il commesso comprensivo accetta.
Ho fretta di allontanarmi. Mi lancio sulla rampa di scale con una tale foga che raggiungo in pochi balzi i piani superiori dove gli spazi commerciali lasciano il posto a residenze esclusive. O così suggeriscono le grandi vetrate che offrono scorci di una metropoli antica ma proiettata verso il moderno. Arrivato all'ultimo piano mi rendo conto d'aver sbagliato strada, ho superato l'uscita a livello della strada. Allora scendo ed esco dal lato opposto, l'ingresso dei residenti, verso il cortile passando per una sala fitness frequentata da mature signore che ostentano cotonature anni '50 e anelli d'oro. Esco nel giardino che somiglia tanto a un campo di calcio ancora da completare e qui vengo apostrofato da un cagnetto. Il bastardino abbaia, ma per me è come se parlasse invitandomi a lasciare la proprietà privata.
A passo di carica riguadagno la strada, una stretta strada lastricata di pietra e porfido, tra caseggiati alti e storti che fanno tanto centro storico toscaneggiante. Un tratto è ingombrato da negozi - bar e ristoranti principalmente - nel pieno di manovre da inventario e rifornimenti. Pallets di bibite e bottiglie d'acqua sbarrano il passo e allora mi produco in un prodigioso salto - da fermo - scavalcandole a piè pari con corredo di commenti ammirati da parte di uno degli esercenti. La passeggiata prosegue con le osservazioni della fauna locale: non mi sfugge l'ingresso di uno scantinato equivoco presidiato da due giovani cinesi. La ragazza in minigonna ostenta calze traforate e confabula con un coetaneo dai capelli arruffati da spalettate di gel che annuisce affondando le mani in tasca. Il caschetto di capelli nero scintillante della giovane gareggia con il nero della giacca del ragazzo, la parodia cheap di uno smoking con le maniche arrotolate sugli avambracci. La tentazione di dare uno sguardo dentro mi solletica, ma immagino la solita bisca e passo oltre.
Pochi metri e vengo intercettato da un terzetto di amici. Uno si sbraccia: "Ehi, che si deve fare per chiamarti?". Dicono d'avermi scorto in libreria ed è quasi sottinteso che debba unirmi a loro per una bevuta. Per fortuna la strada mi offre l'opportunità per sganciarmi. La complessa architettura del centro storico vede la strada ostruita da un grosso edificio color sabbia: si può proseguire ma soltanto strisciandoci sotto, perchè la costruzione è come appesa ai due lati della strada. Mentre gli altri si infilano sotto, io scelgo l'alternativa di uno stretto pertugio e li semino mescolandomi tra un'umanità che sa di casbah, turismo dubaiano e antichi mestieri.
Ci sono ovunque piazze biancastre con rovine romane, blocchi di marmo erosi dal tempo, resti sparsi di facciate e monumenti. Su un pendio lastricato che scambio per un belvedere un gruppo di persone sosta davanti a un televisore lcd che trasmette un blob di vecchi film d'azione turchi anni '70: pugni, pupe e canzonette. In inglese mi rivolgo a uno sghignazzante signore in maglietta marinara: è un locale dai capelli corti e brizzolati sulla testa tonda pennellata d'una abbronzatura stanziale. Gli chiedo dove si possono vedere film del genere e mi risponde in un anglo-italiano che devo andare al cinema comedy central. Mi riprometto di andarci, ma il tizio attacca bottone e fatico a seguire il suo discorso. Si avvicina un suo compare che sembra il sosia di Ciccio, con mula al seguito. Mentre cinanciano tra loro l'animale si posizione proprio col deretano puntato sul sottoscritto e intuendo il finale cerco di divincolarmi tra la folla. Comincio a sospettare che sia una candid camera o che sia un duo di svitati buontemponi dallo scherzo pesante. Infatti fanno ostruzione finchè uno schizzo giallastro e liquido non mi raggiunge, schivo il "grosso" ma delle macchie oleose precipitano sulla mia maglietta. La folla ora strepita in preda a raffiche di risate convulse.
Batto in ritirata. Per fortuna non sento addosso l'odore dello slime giallognolo, però vorrei cambiarmi d'urgenza. Dribblo carretti di venditori di souvenir, gruppetti familiari con donne velate finchè arrivo a una piazzetta immacolata e quieta dominata da uno stand a forma di giostra. Ma non è quella la cosa che mi colpisce subito quanto una ragazza che parla con una coppia di anziani turisti: fisico snello, forme da hostess. Ma il suo viso... un trucco marcato, artificiale, ai lati della bocca ha disegnati due solchi. Santo cielo è una bambola! O almeno, le vuole somigliare. Indossa una salopette bianca che le lascia scoperte le ginocchia e anche quelle sono truccate come le giunture a incastro di una bambolina di plastica. Dolls è l'insegna dello stand e non riesco a immaginare cosa possano vendere: cosmetici? Vestiti? Animazione di feste? Sono una decina di ragazze in vari costumi, dallo sportivo ai merletti, dirette da una paciosa signora dalle fattezze orfeiane che le ammaestra come una garrula burattinaia. Devo comunque attraversare la piazza e lo faccio a passo accelerato, anche se una delle impressionanti doll cerca di abbordarmi. Declino gentilmente, vado di fretta e sono impresentabile.
Altra piazza con sorpresa. E' cinta in parte da un colonnato che imita lontani fasti architettonici, bianche scalinate neoclassiche e centro una muraglia rossa, un parete di mattoni rosso lava con strane angolazioni. Vedo dei giovani che si arrampicano perchè lo spettacolo sta dentro. Si sente del movimento accompagnato da una musica disco che fa tanto luna park. La chiamano la rosa rossa: vista dall'alto è un ottagono, una struttura in pvc scaldato al centro da una fonte di calore naturale. Il materiale nel mezzo si scioglie e si ricompone creando forme fantastiche, pilotate da artisti e sponsor (a un certo punto dai flutti rossi emerge anche una mastodontica bottiglie di Fernet Branca). Sui bordi della rosa mi sono arrampicato anch'io seguendo l'esempio di un terzetto italofrancese. Sto cercando inutilmente di accendere la macchina fotografica con una mano sola, mentre con l'altra mi reggo in bilico sullo spigolo. La italofrancesina dalle lunghe chiome bionde siede senza problemi e rimprovera i suoi amici che si sporgono sul magma plastico. Ma i due se ne infischiano e come surfisti richiamati dalle onde si buttano tra i flutti cremisi, apparentemente indenni e ululanti di adrenalinico entusiasmo. Una voce da un invisibile altoparlante precisa che la rosa rossa è azionata da energia naturale e che il Paese è autosufficiente dal punto di vista energetico. Buon per loro, me ne vado. "Certo, penso, sarete anche a posto con l'energia, ma avete un territorio delicato, esposto a terremoti spesso devastanti". Tutte le rovine assumono un'altra veste, meno fiera e preziosa, mi sembrano dei superstiti. Mentre mi infilo strusciando fra tre esili colonne d'alabastro e mi chiedo quanto dureranno.
Bancarelle di frutta fresca tentatrice catturano i miei sguardi. So che non conviene per via dell'acqua, per via dei batteri, però allettano non poco quelle fette di melone brillanti, pesche scintillanti, spicchi verdi e bianchi che promettono succo dolce e asprigni umori. Cogliendo telepaticamente i miei desideri, il tipico ambulante sdentato e bruno come una corteccia d'albero mi indica la mercanzia curiosamente incellophanata sopra una carriola. Ma per lui ho soltanto un cortese "no" che fa calare il sipario sull'intera escursione.