giovedì 25 luglio 2013
Forza di volontà vs forza di gravità
L'avevo vista di sfuggita alzando lo sguardo distrattamente e dopo averla focalizzato fingevo attentamente indifferenza. Era un'orrida massa rocciosa, un incubo partorito da Dalì alto centinaia di metri che sbucava dalla terra e minacciava il cielo d'azzurro quieto come una baldanzosa bestemmia. Forse, mi dicevo abbassando la testa, se non le dò peso non dovrò frequentare quella mostruosità. Invece, come se si fosse aperto un terzo occhio, iniziavo a esaminarne il profilo curvo che alla sommità annunciava una sfida ancor più alta al mio senso di vertigine: un ponte tibetano fatto di sottilissimi cavi neri. Una costruzione talmente precaria che pareva non avere sponda sulla quale poggiarsi. Restava lì, protesa in una foschia lattiginosa dovuta alla distanza. Non c'era nulla all'altro capo. O così sembrava.
Il percorso cominciava da una comunissima rampa autostradale che si assottigliava man mano l'auto - un datato fuoristrada - si inerpicava per i fianchi della montagna. Al volante c'era un militare, forse un carabiniere che sapeva il fatto suo, o almeno così dava a vedere. Nel giro di pochi istanti la pendenza iniziò a farsi sentire: 30°, poi 40°. Io, un fascio di muscoli e nervi tesi in allarme, ero a fianco del conducente che rispondeva alle futili domande di altri due passeggeri. Era chiaro che dovevamo andare a verificare lassù, ma continuavo a chiedermi come fosse possibile. Ero schiacciato contro il sedile e la grande paura si insinuava nei miei pensieri: e se adesso si spegne il motore? E se si buca una ruota? Immagina l'effetto di una pioggia di frammenti di roccia..
Io controllavo il nostro pilota: mani sul volante, tranquillo, non l'avevo visto mai cambiare la marcia, si procedeva a velocità costante macinando un fondo stradale semisterrato e il motore non sembrava sotto sforzo. La base della montagna era la parte più ripida, considerai, mentre il braccio della cima inarcato a sinistra offrirà una pendenza meno impegnativa. Certo, andava messo in conto il problema delle buche: un sobbalzo troppo esagerato e la jeep si sarebbe ribaltata con effetti devastanti. Ma no, dovevo pensare che ce l'avremmo fatta. Il carabiniere sembrava tanto sicuro.
Interno: è un piccolo rifugio di montagna, un laboratorio artigianale con spaccio di formaggi d'alpeggio, un avamposto d'osservazione. Di preciso non lo so. Anche se prevale la sensazione che sotto ci sia dell'altro. Non posso togliermi dalla testa l'immagine del ponte sospeso. Forse il progetto segreto sta nel percorrerlo con la macchina: una pazzia. I locali sono stretti e lunghi, ingombrati da lunghi tavoli con panche. Io sono seduto e osservo il viavai di quelli che paiono innocui escursionisti e scalatori di lungo corso. Sono seduto perché ho difficoltà a camminare: la pendenza si è impadronita delle mie gambe. Appena mi alzo il peso mi trascina contro la parete più vicina. Se non ci fossero ostacoli immagino che volerei giù fino a valle.
Il carabiniere e due ragazzine in camicia a scacchi si accorgono del mio immobilismo e mi incoraggiano: sù ce la puoi fare, fai come noi. In effetti a parte l'andatura un poco spedita nella direttrice nord sud non sembrano avere grossi problemi di movimento. Ma c'è un velo di pazzia in tutta l'operazione: perché costruire qui? Una parete di roccia buona per capre e stambecchi. E ora mi chiedono di opporre la forza di volontà alla forza di gravità. Folle. A che pro? Forse solo per il gusto della sfida. E' bastato questo pensiero per rimettermi, pur faticosamente, in piedi.
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