Sette mari solcherò senza sentire freddo ne piegarmi alla brezza salmastra. Al timone tessere del domino, alle vele un mosaico di post-it smarriti. Nude tavole che hanno conosciuto calcagni legnosi di pirati caraibici ora stridono tirate a lucido dalla gomma delle mie All stars: il canestro è inchiodato all’albero maestro. Un triangolo suona allo scoccar della merenda: pane e marmellata per tutti. Anche i cannibali fanno uno strappo e infilano le zanne puntute, vergini al Colgate, sul culo delle michette debitamente spalmato.
L’idea di fare il punto col sestante non ci sfiora, una noia da secchioni. Le correnti ci sono amiche come un paradosso zen eppure non ci disperiamo. Il sole ci accompagna benigno schizzando i suoi raggi in faccia alle invidiose corvette britanniche, ai tronfi galeoni spagnoli. Dobbiamo dichiarare la nostra bandiera? Troppo scafati per sapere che il vello d’oro è soltanto un pretesto e Giasone si è servito alla Standa dopo una gita in gozzovigli con amici e amiche radunati per strada.
Ma non issiamo neppure la pavida bandiera bianca, il nostro vessillo riflette il cielo e le nuvole che si sfidano a percorrerlo sulle ruote del vento. All’imbrunire si parcheggia sotto costa soltanto per godere gli aromi di spezie e verzure tropicali che spirano dal magma incolto di fronde steso sulla terraferma. Un misfatto o una benedizione? Non saprei cosa ha inselvatichito la dimora dell’uomo, servirebbe entrare nel dettaglio, spolverare scritture sacre e profezie blasfeme, servirebbe forse un altro sogno.
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