mercoledì 16 maggio 2012

Questa è la nostra canzone




Sono quello che sono: un piccolo borghese che si arrabatta e casualmente entra in contatto con una famiglia facoltosa. L'aspetto strano è che in principio mi presento come compagno di giochi del figlio, entro in casa per una casuale merenda e non mi sfugge il fascino acerbo della sorella maggiore: un'aggraziata ninfa francese, modello Costa azzurra anni '60. Improvvisamente sento tutto il peso della mia età: se lei ha poco più di vent'anni io ne ho il doppio. Quando ci troviamo nel bagno del loro attico - incastonato in cima a prestigiosi palazzi che assomigliano al centro di Milano - io sorrido allo specchio e le mie zanne gialle mostrano irriverenti lo scontrino del tempo passato. Lei scherza con una complicità che mi lusinga, ma dietro lo schermo compiaciuto non posso fare a meno di pensare che quest'avventura non ha senso e comunque serve altro prima di giocare a carte scoperte.

Abbiamo trascorso la giornata tutti insieme, spensierati e giocosi, fingendo di dimenticare che la sera ci attendeva un appuntamento ben preciso: un ricevimento di gala. Anch'io mi vedo vestito in completo nero, camicia bianca e un cappotto trequarti scuro e mi sento abbastanza all'altezza della situazione. La signora madre è una piccola madre-regina: minuta, un po' curva e con un tono di voce gentile, anche se parca di sorrisi.
Quando entriamo nel giardino della gran villa c'è una folla autorità e "gente che conta" dispersa in vari capannelli attorno a discreti stand di cibarie allestiti come riproduzioni di casette in legno stile Far West. La regina, in completo azzurro carta e cappellino a forma di torta del medesimo colore, è preceduta da uno snauzer gigante a pelo lungo, che teniamo prudentemente al guinzaglio. Sottovoce mi chiede se tutta la situazione non sia eccessivamente formale. Le rispondo sinceramete di sì e lei se ne rattrista con un'espressione di finta sofferenza che mi fa sorridere.
Infine arriviamo a un gruppo di conoscenti, forse gli ospiti della serata. Ma non c'è tempo per i convenevoli: un altro grande cane, stessa razza del nostro si staglia a fianco dei signori in smoking e delle signore in abito da sera con braccia nude e spalline luccicanti. I due cani si fronteggiano, si fissano. Poi la tensione viene rotta da un lamentoso uggiolio. Il nostro gigante si rifugia sotto una veranda. Più che impaurito pare in attesa.

Non so perché ho deciso di andare in questo centro commerciale nella notte bianca della sua inaugurazione. Forse perchè mi sentivo fuori posto al party delle teste coronate? O più facilmente non ero ammesso? Mi preme soprattutto tornare là in tempo perchè mi ero impegnato ad riaccompagnare la famiglia a casa. Così vago per questi spazi ombrosi e chic, corridoi completamente pavimentati di parquet, negozi open space con luci soffuse e pareti e soffitti neri. Solo la merce è illuminata da nastri al neon. Prevale ovunque un marrone color ruggine.
Fuori si intuisce il brutto tempo: nuvole di vapore si sfilacciano davanti a vetrate tonde come grandì oblò. Anche gli spazi interni sono curvi, ho l'impressione che l'intero edificio all'esterno appaia come un'enorme zuccheriera. Gli uffici invece sono illuminati a giorno, tutti in vista. Una conoscente mi indica un'agenzia senza insegna: è la sede di un imprenditore di punta. Dentro c'è la sua squadra: ridanciani giovanotti palestrati in camicie a maniche corte sdraiati su amache di pelle e acciaio che scherzano con le assistenti a beneficio dei passanti.

Ma il tempo stringe, devo tornare al party - perchè mi sono allontanato tanto? - l'orologio fa le 00.06. Torno al negozio d'abbigliamento per ritirare una bizzarra camicia-mantello estiva color blu elettrico. Il pacco sembra il faldone voluminoso di un progetto urbanistico. Rispetto al primo incontro il commesso - che ha l'aria di un barista skinhead ripulito dalle anfetamine - è meno affabile, mi tratta con fare sbrigativo indicandomi la merce pronta e lo scontrino su un tavolino di simil marmo nero che riflette le luci al neon. E' come se avesse scoperto qualcosa di me. Infatti quando raccolgo il pacco sotto ci trovo il mio blocchetto nero per gli appunti. Mi incammino pervaso da una sensazione di eleganza: indosso una sorta di sahariana, pantaloni leggermente scampanati e occhiali da sole fumè che s'appannano rendendo difficile l'orientamento in quel labirinto curvo.

Tanto che quando cerco di imboccare una sala oscura per raggiungere l'uscita so già che è la strada sbagliata. Incrocio sulla soglia un manager in completo sportivo che mi sfiora lanciandomi un'occhiata interrogativa, ma non arriva a spendere domande per me. Dentro c'è pochissima luce, soltanto lontani tavoli e divani sono illuminati dalle luci gialle di lampade a stelo e abat jour. Quasi vado a sbattere contro una signora in tailleur e capelli raccolti in un nero chignon. Il suo volto serio, irretito da rughe profonde ha l'aspetto di un fiero custode: è questo il cuore oscuro del centro commerciale. Prima che possa dirmi qualcosa mi scuso e giro i tacchi.

Appena guadagno il corridoio la musica in sottofondo si alza: gli schermi tv nel corridoio trasmettono il concerto inaugurale. Una voce di ragazza introduce il presentatore: sembra una versione blues di Gegè Telesforo, con capelli lunghi alla Kit Carson e un mento incoronato da una barba bizantina. Ma non sono convinto che sia lui, forse gli somiglia e basta. Poi si diffonde una canzone: è Shock the monkey di Peter Gabriel. Una versione con la parte vocale in risalto, quasi un gospel, ma molto sincopato. Tutti dovrebbero cantarla, mi dico, è questa la nostra canzone.

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