venerdì 19 settembre 2014

La grande rapina e il piccolo cittadino modello


 Passeggiavo per le vie di una città familiare ma non ben precisata. Erano calate le prime ombre della sera e dalle vetrine illuminate si potevano ricavare le prime impressioni di una giornata che spirava. Il mio passo era rapido ma non affrettato, non avevo appuntamenti, me la prendevo comoda. Capito davanti a una vetrina "oscurata" da una tapparella, di quelle regolabili da ufficio. Noto che nella parte superiore sbuca una mano: dentro c'è una persona con una mano sollevata. Ma non è un saluto o uno scherzo: il braccio resta lì e dentro di me inizia a suonare il campanello d'allarme.

Il negozio pare una banca, anche se è strano sia aperta così tardi. Estraggo il cellulare e mi fingo impegnato in una conversazione. Nel contempo piego la testa in modo da sbriciare tra le sezioni della tapparella che si estende per ben quattro vetrate. Mi si presenta così, congelata in un quadro vivente, la scena di una rapina. Seduti su banchi o in piedi, alcuni impiegati in camicia bianca sono imprigionati in artistiche gogne tecnologiche che li bloccano al collo e un braccio, oppure - forse per i più recalcitranti - la combinazione testa, braccio e gamba.

I rapinatori hanno capelli neri e lucidi, sono giovani e hanno le facce vagamente orientali nascoste da grandi occhiali da sole. Mentre passo senza accelerare l'andatura, come un lavoratore che ha inserito il pilota automatico verso casa, mi squadrano attenti: soltanto uno ha una pistola, gli altri forse per dissimulare l'assalto brandiscono dei grandi stereo portatili ghetto blaster. Non mi meraviglierei se fossero lanciarazzi camuffati.

Supero le vetrine e attraverso la strada, stavolta a passo di carica, tanto che mi ritrovo in una viuzza laterale e mentre mi dico "adesso chiamo i carabinieri", ecco che si ferma un'auto di conoscenti. Ciao che fai qui, vuoi un passaggio. Devo spiegare tutto e perdo minuti preziosi. Cerco di congedarmi bruscamente e torno all'incrocio mentre faccio il numero d'emergenza.
- Pronto?
Sento che sono in linea, ma il carabiniere sta rispondendo a un'altra chiamata. Metto giù e riprovo, mentre riattraverso l'incrocio cercando però di aggirare l'edificio. Sono stranamente lento, e' come se i vestiti mi fossero cresciuti addosso. La giacca ha delle spalline anni ottanta e i calzoni larghi sulle cosce che sembrano possedere vita autonoma come in un video di Mc Hammer.
Pronto, carabinieri?
Si, dica...
E cade la linea. Ormai sono davanti all'ingresso del retro, che scopro essere quello principale. Ci arrivo giusto in tempo per essere investito da un'ondata di avventori in uscita. Tutti giovani in camicia bianca e cravatta, ventenni in giacca e occhiali da nerd serioso che sorridenti si lanciano saluti. Penso che i rapinatori si siano mischiati nel gruppo costringendo tutti a uscire in massa. Poi lo sguardo corre all'insegna del locale, un grosso tondo nero sul quale spicca in lettere bianche la scritta: Al Capone bar pizza.

E' stato un abbaglio, era una messa in scena, una performance artistica ideata nel locale, un set cinematografico per un video a basso costo o una vera rapina? Ma soprattutto i carabinieri rintracceranno la chiamata e mi chiederanno spiegazioni?

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