sabato 29 novembre 2014

Giacche bianche e camici da laboratorio




Vado al lavoro in auto, percorso numero uno. Scorgo un ex collega in bicicletta che mi vede ma finge di non riconoscermi. Nei pressi di un ponte ferroviario la strada è bloccata. Non è esattamente il solito percorso: si tratta Di un incrocio stradale sotto la ferrovia. C'è stato un incidente, almeno così penso mentre parcheggio la macchina lungo il marciapiede. In giorno ne polizia ne vigili del fuoco. Vedo l'ex collega che sgattaiola nel tunnel. Ci sono resti auto e cadaveri ricoperti di garze e bende come mummie. Un uomo con le gambe amputate sotto le ginocchia si agita nella carcassa di una vettura sventrata. Tutto è così polveroso e asciutto che ho l'impressione di una messa in scena da esercitazione. Dove sono i soccorsi? L'idea mi verrà solo dopo: quell'incidente è accaduto anni prima. Vengo tampinato da un premuroso signore che fa il custode del tunnel. Sì, perché lì sotto c'era un garage privato di una ditta, cose degli anni '50, poi la ditta si è trasferita e hanno lasciato lì il custode che è diventato un addetto del comune. Il signore continua a lamentarsi del traffico, scuote la testa "troppe auto per il tunnel". Faccio notare che piazzare un incrocio qui sotto non è una buona idea per snellire la viabilità e mi da subito ragione quasi balbettando per l'emozione. 


Ad ogni modo dovrei andare in ufficio, almeno per segnalare la mia presenza. Ma visto che la sede si trova dall'altra parte del tunnel devo risalire la scarpata del passaggio ferroviario. Ci sono altre persone che lo fanno. Un percorso innocuo solo in apparenza. Inizia con un lieve pendio, poi diventa una scalata e la parete e coperta d'erba verde e umida che non favorisce la presa. Lungo il percorso però c'è una corda, che si rivela un pratico filo spinato. Quindi per salire ti devi aggrappare badando a non bucarti le mani. Giunti in prossimità della cima non ci sono appoggi per le gambe, occorre fare l'ultimo tratto a forza di braccia. Sinceramente non mi fido. Altri però mi superano. Una donna dalla cima erbosa mi incita a proseguire con convinzione. Sento che gli altri si godono il panorama è chiacchierano: non potrebbero darmi una mano? Niente, faccio da me. Chiudo gli occhi e procedo stringendo i pugni sul filo, tengo la schiena contro la parete della scarpata per puntellarmi, anche se facendo in questo modo perdo il senso dell'orientamento. Quello che so è che devo avanzare lungo il filo, una mano dopo l'altra. Proseguo così lottando contro la vertigine per diverso tempo finché non sento più voci. Mi accorgo però che sono disteso sulla schiena. Riapro gli occhi: cielo azzurro e un grande prato verde di montagna. Più in là scorgo una costruzione stretta e lunga dai muri bianchi. Mi sembrano le basi in cemento armato per la rampa di un sovrappasso. Attorno alberi da frutta e degli orticelli.


Il posto è governato da un prete: un ometto sulla cinquantina con occhietti tondi come bottoni, azzurri e penetranti, e un pizzetto sale e pepe. Tutti lo chiamano il don, indossa un gilet nero sul quale pende una collanina con crocifisso d'argento, anche se ho qualche dubbio che l'abito faccia il prete. È il responsabile di una specie di centro di recupero da non si sa cosa, forse dallo stress, abbinato a un ricovero per bambini che non paiono orfani, alcuni sono qui con uno dei genitori. Sono esausto per la scalata, svengo. Quando riprendo i sensi sono in una sala che pare l'atrio del centro, il prete mi fa il ritratto psicologico: sei così sei cola', strano che tu sia capace di tanti sogni, dove li prendi? E poi viene la proposta di restare per ristabilirmi. Dico che ci voglio pensare. Mi fa ok e va a occuparsi d'altro. Scopro che posso girare soltanto al pianterreno e che gli ospiti e gli addetti si confondono indossando camici bianchi e giacche o pantaloni da infermieri. Gli unici in abiti normali sono i bambini. Anche io indosso pantaloni di tuta grigio chiara e una giacchetta di tela bianca.


Gli ospiti sono tutti cordiali, ma nessuno rivela nulla sul perché della sua presenza al centro. Bambini e genitori mi danno l'impressione di essere scappati da un familiare violento. Parlano piano, quasi sottovoce e sorridono cercando di scansare l'ira con la mansuetudine. Nell'aria c'è infatti un'atmosfera di serenità artificiale che dopo un po' diventa stucchevole. Sono tutti presi da riunioni, incontri. Mi propongono di riprendere gli studi, il centro offre la tranquillità necessaria e i metodi più efficaci: nella sala atrio ci sono tavolini tipo banchi di scuola, poster e testi che sanno di condensati universitari. Immagino sia una delle attività del centro. La cosa mi solletica, ma dovrei avvisare l'ufficio. Mi sorridono come per dire non ce ne è bisogno. Prendo tempo, mi metto a giocare in una saletta con i bambini e qualche mamma: ci sono un sacco di giochi colorati di plastica. Ovviamente raccatto subito dei soldatini e inizio a spiegare le regole di un wargame a un bimbo. Dopo un po' questo si annoia e va a giocare fuori con gli amichetti, la mamma si scusa. Io dico non fa nulla. Ma intanto sono solo e scatta il piano d'evasione.


Esco da un altro ingresso, quello che porta nella zona degli orti. Alcuni ospiti in camice bianco stanno trafficando con le piante di pomodori. Io allungo il passo, qualcuno mi grida qualcosa. Io volto la testa, sorrido e annuisco, ma continuo a tenere il ritmo veloce. Accorrono altri tizi in camice bianco. Ormai la fuga è scoperta e diventa una corsa. Anche se quelli che mi affiancano non mi bloccano, corrono insieme a me. Ho dei compagni di fuga. Prima di arrivare al frutteto sbucano altre giacche bianche che frenano tutti quelli che corrono. Nasce un parapiglia e io cerco di sgusciare via. All'improvviso si sente un urlo, un ruggito: uno dei camici bianchi si sta trasformando in un colosso muscoloso. Sprigiona rabbia. La scena diventa un fotogramma in bianco e nero. L'uomo ha addosso brandelli di vestiti, digrigna i denti bianchi, attorno al collo taurino i resti del camice gli fanno una bizzarra corolla, sembra Hulk vestito da Kermit la rana. Poi noto i capelli neri e lucidi a caschetto, stranamente simili a quelli del bambino con cui ho giocato. Urla: basta, basta. E tutti cercano di rabbonirlo a distanza. Vedo che arriva il prete e mi sgancio per tornare al Centro.


Mi pare chiaro che nessuno mi sta cercando, che il prete non è tale, ma don è forse un appellativo per un santone della medicina o similia. Forse ha stretto un patto con le autorità per farsi carico di soggetti marginali o problematici. Anche io?

Arriva la notte. Uno degli inservienti mi mostra il dispositivo di sicurezza anti intrusione. Lo fa con una naturalezza tale che intuisco la trappola. O forse è tutta una messinscena per scoraggiare i potenziali fuggitivi? Fingo di addormentarmi su una poltrona nell'atrio. Poi quando cala il silenzio raggiungo le scale e arrivo al primo piano. Uno dei camici bianchi spalanca una porta tagliafuoco con una stretta feritoia vetrata. Attendo acquattato nel sottoscala il suo passaggio e di nuovo salgo per aprire la porta. Ma si apre solo dall'interno. In quel momento una donna con la bustina da infermiera in testa apre. Colgo l'occasione al balzo, entro a testa bassa bofonchiando un "grazie". Prima che possa dire qualcosa ho imboccato il corridoio, in tutto e per tutto simile a uno stretto corridoio di ospedale: pareti color tenue acquamarina, piastrelle giallo ocra, finestre sigillate e oscurate, c'è solo luce artificiale a parte due vetrate alle estremità del passaggio che dovrebbero far entrare la luce solare. Ci sono poche finestre sul lato interno, segno che le stanze sono ampie. È dalle serrature ad apertura con badge elettronico devono essere più dei laboratori che delle sale di degenza. Mentre studio le sigle che contrassegnano le porte mi sorprende un medico, almeno tale mi sembra: occhiali, capelli neri ondulati, con il naso infilato sulla sua cartella e lo stetoscopio al collo. Mormoro un "salve" e rapido giro l'angolo dove trovo una nicchia con poltrone, ficus, e un tavolino con riviste sfogliate. Arriva un altro camice bianco, questo ha l'aria di un tecnico, è rugoso e paffutello, con la barba ispida. Sembra il fratello gemello sfatto del prete. Si accosta a una delle finestre sigillate e poi apre un piccolo oblò che non avevo notato prima. Si guarda intorno furtivo, ma io sono protetto dal fogliame del ficus, e poi caccia dentro il braccio destro. Si sentono gridolini e squittii. C'è qualcosa di malsano nel suo gesto. Non contento tira su la mani e infila il braccio sinistro. Mi sembra di ravvisare delle grida femminili o di creature terrorizzate. Il tecnico fa una smorfia e reprime un urlo con un sospiro profondo. Estrae il braccio e richiude l'oblò. Il braccio è arrossato e pulsa gonfiandosi a dismisura, come la chela di un granchio, mentre il tecnico annaspa stringendo gli occhi per il dolore. Qualcosa deve averlo morso o punto. Forse sta per schiattare. Invece il braccio si sgonfia, il respiro torna normale. Il tecnico tira fuori dalla taschino un block notes e scrive qualcosa mentre si allontana. Anche io prendo la stessa decisione. Troppo rischio per un uomo solo.


Come prevedevo la faccenda dell'allarme era un bluff. Ho superato porte, orti e giardino senza problemi e senza essere intercettato da nessuno. Mi allontano dal centro immerso nel buio camminando sull'erba e seguendo le luci della città che si stendono sotto di me. Ci sarà pure una discesa accessibile. Sento i piedi umidi, mi accorgo che indosso dei sandali aperti e le calze si stanno inzuppando. Dove sono le mie scarpe? Il pensiero si manifesta come una fitta dolorosa che mi scuote. Dove sono le scarpe? E la domanda senza risposta si trasforma in furia. Le luci della città si annebbiano sovrastate dall'onda di marea dell'ira. Sono sorpreso dalla rivelazione della mia stessa rabbia, ma non so fermarla.

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