mercoledì 11 febbraio 2015

Il centro commerciale mobile


Ho visto il futuro dei centri commerciali. Mi ci sono imbattuto per caso durante una gita. Sono entrato in un negozio di abbigliamento, niente di particolare, un magazzino di varie marche di livello medio basso, insomma più popular che outlet. Infatti nelle corsie vicine alle casse ci sono anche libri e giochi per bambini, tazze e altri casalinghi. Inizialmente mi perdo ad osservare la clientela. Un ragazzo di colore dalla camminata hip hop indossa un vistoso giubbotto di pelliccia, ed è talmente gonfio che sotto deve avere almeno due maglioni. Si intuisce che sia una tattica per il taccheggio quando inizia a fumare. Fuma in un locale di vendita, cosa inaudita. Guardo attorno per cogliere il disappunto di qualche commessa.

Dietro un bancone destinato al reparto femminile c'è una suora, già tipo quella che canta, suor Cristina. Scuote la testa e dice: lasciatelo stare, vuole solo farsi buttare fuori. E allora capisco il trucco: si fa cacciare col bottino addosso. La scusa è: io stavo comprando sono loro che mi hanno buttato fuori. Quindi non succede niente, almeno finché non cercherà di uscire o si infilerà in un camerino per sfilarsi ciò che indossa. Io però ho altre urgenze che assistere allo squallido finale e scendo le scale per uscire.

Fuori c'è il corso e si vedono la rampe della sopraelevata: possibile? Non ho sbagliato uscita. Sono in un'altra parte della città. Poi mi volto ed è come se vedessi il centro commerciale da Google maps: una struttura costruita su binari che si sposta lungo un percorso toccando diversi quartieri. Un metro dello shopping che "naviga" in mezzo alla città con negozi e servizi. La forma del complesso somiglia a alla nave di Alien, il Nostromo: alte torri su una base di cupole rovesciate. Uno stile cosmo-gotico che sinceramente non ispira fiducia.

lunedì 2 febbraio 2015

Oui, bien sur

È una di quelle attività extra scolastiche che sconvolge la routine delle mattinate in classe e che fa sentire gli studenti "più grandi". Siamo liceali, radunati in due sale teatrali gemelle. In quella di destra la conferenza, nella sinistra il concerto gospel. Credo che il tema sia religioso e che i relatori  portino testimonianze di vita difficile e fede, magari con un pizzico di shoa. Tra i relatori un rabbino con il cappello a bombetta e un elegante Mlk (Martin Luther King) con tutto il magnetismo del predicatore evangelico.

Mi pare che la discussione sia molto pacata, tanto da non approdare a nulla oltre i convenevoli. Nell'altra sala attaccano i canti, un repertorio gospel che però si tuffa in un noto brano rythm and blues. Anche io mi metto a cantare, pur non conoscendo bene il testo. Passa un galoppino nero di Mlk, tutto impettito e sorridente che invita tutti a battere le mani a tempo, offrendo degli opuscoli pubblicitari. Che diavolo vuole di più? Io sta già cantando. Invece quando mi passa vicino fa un cenno della testa e poi scende la scalinata della platea. Neanche l'opuscolo mi ha dato. Magari ha pensato che ero già uno dei loro, invece quel testo potrebbe essermi utile per scrivere la relazione scolastica. Mi accorgo allora che il galoppino nero sta trascinando via con il piede destro la mia sciarpa. E si', siamo vestiti pesanti, io ho un maglione spesso ed un impermeabile lungo. Mi alzo e lo inseguo, ma in quel momento la seduta viene sciolta.

L'assemblea si disperde. Incrocio il secchione di classe n.3 e gli chiedo dell'opuscolo ma mi dice che non è niente. Naturalmente non mi fido finché non scopro che si tratta di un banale quaderno con pagine bianche. Ne raccatto comunque una copia calpestata e abbandonata. Il grosso degli studenti si è già dileguato. Scopro che siamo in una sorta di villa del 700 con affreschi e stucchi d'oro. Grandi scaloni ci portano nell'interrato, un magazzino semi vuoto che si apre su un cortile recintato a bordo mare. O è un lago? In un praticello che appartiene ad una proprietà confinante due braccianti o marinai si rilassando seduti su un piccolo declivo vicino alla riva.

Io, il secchione n.3 e un terzo amico decidiamo di passare da una smagliatura della rete di recinzione. Mentre passiamo davanti ai due tizi quello scuro di pelle con la maglietta a righe e grossi bicipiti ci apostrofa. Parla in un francese stretto, un impasto di marsiglia e magreb che intendo a spizzichi. Mi limito ad annuire e dicendo ogni tanto "bien sur". Scopro che il suo socio regge un cannone del calibro di un sigaro. Hanno l'aria di due pescatori o marinai. Ci invitano a sedere lì accanto prima di guidarci fuori dalla proprietà. Il mio amico approfitta subito del passaggio rituale della canna con una bella aspirata che suscita risatine dei marinai, il secchione invece cerca di interloquire su altri temi sfoggiando il suo francese migliore ma senza risultati. Io declino il turno canna e mi siedo con voluttà sull'erba, dalla tasca infatti estraggo un romanzo dalla copertina verde. Non vedo l'ora di riprendere la lettura.

Massaggio al duce



Dopo una parentesi Genovese a zonzo per strade in pendenza, allentate come vecchi stendipanni al sole, mi sono imbarcato su un aero taxi. Un piccolo velivolo che parte come un taxi, con tanto di autista in giacca di pelle alla Bravi ragazzi e interni moquettati, e poi decolla con un soffio. Al mio fianco si accomoda un signore con una gran mascella chiusa in un rigido sorriso. Sul sedile posteriore, che pare un divanetto da limousine gangsta rapper si siedono due mie colleghe: Reika e Beauty. Siamo diretti a una scuola dove viene segnalato un affresco - ne ho una rapida visione e somiglia a un lavoro di Giotto dai contorni un po' sbiaditi dall'umidità - che piange o trasuda. Miracolo? Occorre un sopralluogo.

Guardo ancora il mio compagno di sedile: anziano, ma robusto. In testa ha un baschetto che si toglie rivelando il cranio glabro. Ed è lì che lo riconosco: ha l'aspetto un po' stranito del suo "recupero" dalla prigione del Gransasso ma è lui. È Benito Mussolini, in arte il duce.
Di cosa si occupa adesso? Il rumore delle eliche mi porta via parte delle sue parole. Capisco "brigate rosse". E poi mettendo insieme i brandelli di conversazione salta fuori che sta scrivendo un saggio sul terrorismo: mette a confronto le azioni "rosse" degli anni '20-'30 e gli anni '70 del Novecento. Ribatto che le situazioni non mi sembrano comparabili: nel Ventennio il controllo dei media era molto stretto (nel senso che la diffusione dei mezzi di comunicazione era limitata a pochi e spesso contrapposti gruppi di potere). C'erano si' la radio e il cinema. Già, il cinema dice lui con l'aria di uno che ne sa qualcosa. Cinema! Fanno eco le colleghe da dietro. Poi lui fa una smorfia di dolore. Uno strappo alla schiena: mi servirebbe un massaggio, dice sollevando un maglione di cotone bianco pesante che scopre un torace ancora robusto e dalla pelle abbronzata. Sul fianco fa capolino un tatuaggio, una cuspide nera di un qualche disegno tribale, o così mi pare. Dovrebbe togliersi il maglione per capire.

Il magnetismo dell'uomo è tale che Reika e Beauty si offrono subito per dargli un casto sollievo. Nella concitazione Reika infila la mano tra i sedili e tasta per sbaglio me: in quell'istante mi rendo conto di non indossare altro che un pigiama estivo di tela cotone simile a quello che portavo in ospedale durante il ricovero. Il signor Mussolini si sposta sul sedile posteriore per agevolare l'operazione "massaggio al duce". Tutto sembra svolgersi in una forma casta e naturale: lui adagiato bocconi e le due premono sulla schiena seguendo le indicazioni dell'infortunato. Nulla di sconveniente, oltre al fatto in se'. Mi volto e scopro che il taxi sta dormendo saporitamente. La cloche è sparita in qualche vano nascosto per dargli spazio.

Mi preoccupo un attimo, ma so bene che c'è un pilota automatico che veglia sulla nostra rotta. E infatti ecco che comincia una planata dell'aero taxi che annuncia l'arrivo. Tutti si ricompongono, il duce si rimette a posto e in breve si atterra. Scendiamo in comitiva, la scuola è vicina. Entriamo nel cortile lastricato a porfido e con qualche aiuola verde. Si scorge un giardinetto con giochi. Varchiamo la soglia e in balzo siamo nell'atrio: e' un ambiente con le pareti piastrellate, bianche e lucide, sembra un gigantesco bagno. L'affresco sta nel reparto cucina che un tempo era la mensa delle monache. Il duce fa strada sciorinando dati e aspetti storici relativi all'asilo. Io però mi fermo, non me la sento più: sono in pigiama...argh!

Processo in piazza Vecchia


I carabinieri fanno selezione all'ingresso, perquisiscono, frugano nelle borse, cercano videocamere, registratori. Io so di averne uno con me. Cerco di distrarli, attacco bottone con un comandante in una saletta che pare lo studio di un avvocato. Sfodero un libro d'arte come regalo, il vice comandante ride "e' proprio il suo genere". Dalla borsa tirano fuori dei dvd, cofanetti di qualche serie smilza, ma prima che possa identificare i titoli vengo ammesso in sala.
L'udienza e' in corso: toghe nere sullo sfondo di alti seggi, camici bianchi per imputati e testimoni. Mi siedo in ultima fila. Un omone calvo, uno dei camici bianchi, si agita con espressione sofferente, steso a terra, dietro un alto scaffale foderato dai tomi della legge. Un altro, con i capelli rasati a forza, scatta verso una finestra aperta. Suona un allarme, io lo seguo, più per curiosità che per dovere. Il giardino sembra un cantiere edile, tubi e buche, pochi ciuffi d'erba incolta. La sua corsa si arresta dopo un largo fossato fangoso, addosso ad una recinzione fatta di rete metallica. La sua fuga termina li.
La mia no.