giovedì 30 aprile 2015

Expocalisse!



Mentre si scandiscono le ore del countdown come per una febbrile veglia da missione spaziale, diciamolo subito: comunque vada, sarà un successo. Perché la propaganda, specie in tempi di guerra incivile, non dà scampo. Tanto più nella terra di miseria e nobiltà che chiamasi ITalia. E' la voce del padrone ad alzarsi stentorea sui lamenti di chi soccombe alla metà del mese e sulle grida degli spillati vivi (da tasse, imposte, addizionali, supplettive, ritocchini improrogabili e automatici rincari) e a sommergere le obiezioni degli occhiuti e dei nasuti con lo squillo di fanfara: chi non è con me, peste lo colga.
E come in ogni buon Titanic, occorre muoversi al ritmo dell'orchestra di liscio & samba se non vuoi venir dimenticato nella stiva che s'allaga o trovarti in fronte il buon vecchio marinaio che ti inchioda all'albero maestro, come l'albatross, sfortunato cugino del gabbiano Livingstone.

Perciò è detto: Expo successo annunciato. Il successo è già nell'annuncio. Che il cantiere sia ancora aperto alla vigila del taglio del nastro, che gli edifici siano soltanto facciate puntellate come nei western con grappoli serpentini di cavi penzolanti, che le procedure e i controlli siano diventati elastici come spaghetti stracotti serviti alla Marchionne, tutto ciò conta poco pur di poter affermare: l'Italia riparte. Cioè, parte per dove? E chi lo sa, l'importante è muoversi, è segnale di vitalità e indice di salubrità intrinseca. corruzione e concussione son dettagli da magistrati, nepotismi e prebende sinonimi di efficienza e qualità. Si chiede davvero poco per dichiarare l'inevitabile successo, giusto un sussulto di pil, un segno più da qualche parte (biglietti del metrò, carte postali, carte igieniche), un plauso di autorevoli autorità. L'asticella è piazzata ben in basso. Ce la possiamo fare, basta una spintarella, anche se alla fine ci sarà un inciampo e si andrà distesi bocconi bestemmiando. Come si dice: purché respiri, no?    

E di bocconi e respiri ce ne saran parecchi. Nella forma Expo infatti è cibo, è specchio di un banchetto planetario, cucina di millanta pietanze e vetrina di manicaretti meravigliosi. Occasione di incontro senza cipiglio, giacché il bicchiere di nepente, nettare d'oblio dei maggiori crucci, sarà sempre pieno. Quantunque il menu sia zeppo di tematiche impegnate e impregnate di futuro: la salvaguardia della tradizione, il baluardo della salute, la frontiera della nutrizione. Luminose riflessioni gonfiate ad elio da consegnare ai finti bimbi creduli che s'accodano all'ingresso. Qualche cupitudine volatile per l'acqua che scarseggia, un minuto di silenzio per i milioni con il piatto vuoto o per l'estinzione del panda e poi tutti a magna' sushi di delfino e beve vino di laboratorio coltivato in taniche a gravità zero. 

Nella sostanza - ma quale chimicamente parlando? - Expo è principalmente costituita d'attesa. Un continuo titillamento, un fascio d'onde conformiste, una tortura a goccia larga che prefigura orgasmi del pil, profluvi di valuta estera e interna (fuori i bigliettoni e via la crisi) e mille e più mille infatuazioni foriere di business, stress da competizione, strass da esibizione. Sussuriamolo tra di noi: il concetto di Expo vetrina è calzantissimo. Non importa se la bottega è fatiscente, se i topi si servono direttamente dal bancone, se le leccornie han passato la data di scadenza di qualche decennio. Noi al mondo "vendiamo" la vetrina. Chi abbocca...fatti suoi. Le eccellenze belle di giorno la notte si squagliano, l'artistico pressapochismo tricolore cede rivelando smagliature, lifting scadenti e belletti innominabili che hanno il gusto sapido e urticante della truffa. Ma è il mercato bellezza!

Sì, perché per chi non lo sapesse ancora siamo un Paese in vendita. Magari fatichiamo a scriverlo in inglese sui cartelloni posti al confine, ma i nostri architetti sono pronti a cenare a casa vostra - o a scalzarsi in qualsiasi moschea che non sia sotto casa - per illustrare le metrature e le location migliori insieme a sorridenti bancari con tassi compiacenti al guinzaglio. Siamo un Paese svuotato della produttività e inchiodato alle fantasticherie di un terziario dei servizi ormai testa a testa con le realtà terzomondiali. Fuggiti - oppure con la valigia già pronta sul letto - i maggiori protagonisti dell'industria italia, il sistema-Paese, seguendo regole matrioskali, oggi è in mano ad una manciata di banche, rette da fondazioni e azionariati ristretti in doppia cordata con una èlite politica egocentrica che ormai si da del tu, si apparenta, si accapiglia e si riappacifica per intricare la trama di una telenovela che appassiona soltanto la platea dei lacchè di corte e pochi emigranti brasiliani. Il circolo magico del potere italiano ha come appendici una sessantina di milioni di dipendenti mesmerizzati dall'illusione di vivere in una democrazia a buon mercato.

E pertanto prima della resa del conto, distendiamoci e inquadriamo finalmente questa Expo "universale" per ciò che è: una fiera che ci porta a vicino a casa qualche idea confezionata del resto del mondo. Una somma sommaria di particolari e particolarismi che si compiace di sfarzi e piatti caldi, toni imbonitori e suadenti promesse, proprio come in ogni sugosa sagra paesana. Expo non cambierà l'ITalia. Nell'attesa, come nostro italico costume, facciamo festa.



giovedì 16 aprile 2015

Il resto della notte



Così, mentre fai la strada verso casa e nell'abitacolo della macchina fluisce una fragranza notturna di copertoni bruciati e croste di formaggio fermentate, aromi sversati dalle flatulenti valvole di qualche dittarella birichina, ma con un bel fatturato nell'export su export, il pensiero non t'abbandona. Come una puntina di giradischi persa su un solco circolare, l'amarezza dell'ultima ora..di lavoro persiste, simile ad un eco appiccicoso, al ricordo di un'alitata fetida. 
Hai fatto il possibile per stare sopra le righe, ti sei mostrato impassibile agli sgarbi quotidiani e accondiscendente ai soliti ammiccamenti inutili per creare un surrogato di armonia artificiale. E mancava davvero poco al traguardo di fine turno, con la prospettiva ormai vicina di un breve periodo di vacanza. Eppure...ebbene...no. 
Con puntualità da reazione chimica, come se il mio sollievo innescasse un ribaltamento degli equilibri generali, ecco che arrivano le cattive vibrazioni: la prima a tradirti è la tecnologia. Ormai ben più di una stampella, già oltre l'interfaccia, per il lavoratore è una protesi. Quando si blocca, sei come un robocop senza corrente, un catorcio in attesa di demolizione. Sbottare, smaniare, stridere i denti. Poi c'è la sorpresa, il kinder ripieno di putridume che devi ripulire mentre attorno ballano il valzer del "c'è anche questo da fare, come lo faccio, dammi una mano, ti saluto che è tardi". Finte deleghe, minacce sottintese, lasciamoci con rancore acceso. Infine, a traguardo già in vista, il richiamo dall'alto della rupe: così non va, riaggiusta, sistema, ricalibra. E sono sorsate di bile efferverscente. Quella amara in un modo pazzesco che non si cancella sputando in terra andando a casa. No, il saporaccio si trasferisce dalle papille gustative al cervello e se ne sta lì come su un dondolo demente formato da due sinapsi cigolanti che ti accompagnano nell'insonnia e prefigurano il solito fine settimana sfiancato, dove la mappa di ogni brillante progetto è stata già insudiciata dagli scarponi chiodati dell'ego altrui.
Penso a questo tornando a casa. E ci penserò per quel che resta della notte.

sabato 11 aprile 2015

Le furie della rivoluzione



Un bel sogno è ricco di sostanza, la sostanza che fa da trama alla realtà. Nella notte bar di Barcellona si intrecciano a locali coreani dove l'arredo Val più delle pietanze. Ho attraversato decine di soffitte collegate da un sali scendi di scale di legno scricchiolante, intonaci freschi dal bianco al giallo asburgico. E le ho trovate ospitate: cani ciechi marmorizzati che ho liberato dalla prigionia in un tunnel dove gorgogliavano le tubature di vecchi scarichi, fantasmi di teneri gattini grigi, morti di malattia dell'umido, giocosi custodi di mucchietti di soldatini (l'ottava armata Airfix e i misteriosi incursori del deserto, più qualche nordista e legionario straniero). Seguendo i mici mi accorgo dell'abbaino che offre uno scorcio di campagna dopo la pioggia, i raggi del sole si riflettono sull'erba di verde smeraldo rimasta spiegazzata dal vento. 

Mi sporgo e scopro attorno il lungo davanzale che digrada sul tetto il formicolare di un formicaio: corpicini neri, alati, trotterellano sulle travi venate indecisi se spiccare il volo o attendere un richiamo più deciso del sole. Non sanno se sia tramonto o alba, la tempesta ha rovesciato l'ordine delle giornate. Vorrei sporgermi di più, vedere il cuore della metropoli alata, ma il davanzale lo impedisce e il flusso del sogno mi conduce via sotto un cielo che sa di mare, in un parcheggio vuoto, vicino a una delle tante casematte del turismo a fil di playa. Si avvicina una conoscente che cerco di evitare saltando su una piattaforma di cemento, probabile indizio di costruzioni interrate, ma mi nota ugualmente. Mi saluta con enfasi confidenziale abbastanza inutile e lamentando fretta e raccomandandosi inezie tanto per risottolineare il suo ruolo di massimo impegno nella vita, se ne va. Io eseguo il contrario, ossia vado nella direzione opposta ai suoi desideri, parallelo all'estensione intuibile della spiaggia. 

C'è sabbia sull'asfalto, sul cemento e si alza in mulinello soffiata da un vento che cresce. Grida in lontananza, teloni che sbattono. Trovo rifugio in un semivicolo, uno spazio tra due costruzioni di cemento grezzo, non finito. La tempesta di sabbia aumenta di intensità, è qualcosa di serio, anche se non eccezionale per la zona. Davanti a me, nella costruzione bassa c'è una specie di atrio, è come se avessero lasciato aperta una parete. Entro, cammino sulle piastrelle in finto cotto lucido, dove la sabbia non fa presa, è come se fosse respinta. 

Altri passi e la scena muta in un grovigio di sterpi che fa da tappeto e pareti. Dietro di me sento ancora il vento che infuria, ma di fronte lo scenario è calmo: c'è la campagna. Una campagna spoglia a dire il vero, sotto una luce bianca come gesso. Alberi neri senza fronde fanno da guardia a una marcita. Al mio fianco si rivela una giovane, ha un che di hippie agreste, nei capelli lunghi e nella gonna con grembiule. Mi invita a seguirla sul tappeto di sterpi e radici secche per inoltrarmi nella marcita. Si sente una musica tenue che la esalta e prende a danzare spingendosi in mezzo all'erba acquitrinosa. Qualcosa non mi convince, la inquadro meglio: somiglia ai ritratti delle furie della rivoluzione francese, le fanatiche che accompagnavano i prigionieri al patibolo. Poi il fatto che non tocchi il suolo, ma semplicemente lo sfiori mi fa nascere altri sospetti che non formulo consciamente, ma pesano. Mentre la guardo danzare, la sua copia rispunta al mio fianco e mi illustra la promessa di vita eterna: basta seguirla. Io malfidente liquido tutto come una truffa zingaresca, voltò le spalle e torno alla tempesta sabbiosa.