Mentre si scandiscono le ore del countdown come per una febbrile veglia da missione spaziale, diciamolo subito: comunque vada, sarà un successo. Perché la propaganda, specie in tempi di guerra incivile, non dà scampo. Tanto più nella terra di miseria e nobiltà che chiamasi ITalia. E' la voce del padrone ad alzarsi stentorea sui lamenti di chi soccombe alla metà del mese e sulle grida degli spillati vivi (da tasse, imposte, addizionali, supplettive, ritocchini improrogabili e automatici rincari) e a sommergere le obiezioni degli occhiuti e dei nasuti con lo squillo di fanfara: chi non è con me, peste lo colga.
E come in ogni buon Titanic, occorre muoversi al ritmo dell'orchestra di liscio & samba se non vuoi venir dimenticato nella stiva che s'allaga o trovarti in fronte il buon vecchio marinaio che ti inchioda all'albero maestro, come l'albatross, sfortunato cugino del gabbiano Livingstone.
Perciò è detto: Expo successo annunciato. Il successo è già nell'annuncio. Che il cantiere sia ancora aperto alla vigila del taglio del nastro, che gli edifici siano soltanto facciate puntellate come nei western con grappoli serpentini di cavi penzolanti, che le procedure e i controlli siano diventati elastici come spaghetti stracotti serviti alla Marchionne, tutto ciò conta poco pur di poter affermare: l'Italia riparte. Cioè, parte per dove? E chi lo sa, l'importante è muoversi, è segnale di vitalità e indice di salubrità intrinseca. corruzione e concussione son dettagli da magistrati, nepotismi e prebende sinonimi di efficienza e qualità. Si chiede davvero poco per dichiarare l'inevitabile successo, giusto un sussulto di pil, un segno più da qualche parte (biglietti del metrò, carte postali, carte igieniche), un plauso di autorevoli autorità. L'asticella è piazzata ben in basso. Ce la possiamo fare, basta una spintarella, anche se alla fine ci sarà un inciampo e si andrà distesi bocconi bestemmiando. Come si dice: purché respiri, no?
E di bocconi e respiri ce ne saran parecchi. Nella forma Expo infatti è cibo, è specchio di un banchetto planetario, cucina di millanta pietanze e vetrina di manicaretti meravigliosi. Occasione di incontro senza cipiglio, giacché il bicchiere di nepente, nettare d'oblio dei maggiori crucci, sarà sempre pieno. Quantunque il menu sia zeppo di tematiche impegnate e impregnate di futuro: la salvaguardia della tradizione, il baluardo della salute, la frontiera della nutrizione. Luminose riflessioni gonfiate ad elio da consegnare ai finti bimbi creduli che s'accodano all'ingresso. Qualche cupitudine volatile per l'acqua che scarseggia, un minuto di silenzio per i milioni con il piatto vuoto o per l'estinzione del panda e poi tutti a magna' sushi di delfino e beve vino di laboratorio coltivato in taniche a gravità zero.
Nella sostanza - ma quale chimicamente parlando? - Expo è principalmente costituita d'attesa. Un continuo titillamento, un fascio d'onde conformiste, una tortura a goccia larga che prefigura orgasmi del pil, profluvi di valuta estera e interna (fuori i bigliettoni e via la crisi) e mille e più mille infatuazioni foriere di business, stress da competizione, strass da esibizione. Sussuriamolo tra di noi: il concetto di Expo vetrina è calzantissimo. Non importa se la bottega è fatiscente, se i topi si servono direttamente dal bancone, se le leccornie han passato la data di scadenza di qualche decennio. Noi al mondo "vendiamo" la vetrina. Chi abbocca...fatti suoi. Le eccellenze belle di giorno la notte si squagliano, l'artistico pressapochismo tricolore cede rivelando smagliature, lifting scadenti e belletti innominabili che hanno il gusto sapido e urticante della truffa. Ma è il mercato bellezza!
Sì, perché per chi non lo sapesse ancora siamo un Paese in vendita. Magari fatichiamo a scriverlo in inglese sui cartelloni posti al confine, ma i nostri architetti sono pronti a cenare a casa vostra - o a scalzarsi in qualsiasi moschea che non sia sotto casa - per illustrare le metrature e le location migliori insieme a sorridenti bancari con tassi compiacenti al guinzaglio. Siamo un Paese svuotato della produttività e inchiodato alle fantasticherie di un terziario dei servizi ormai testa a testa con le realtà terzomondiali. Fuggiti - oppure con la valigia già pronta sul letto - i maggiori protagonisti dell'industria italia, il sistema-Paese, seguendo regole matrioskali, oggi è in mano ad una manciata di banche, rette da fondazioni e azionariati ristretti in doppia cordata con una èlite politica egocentrica che ormai si da del tu, si apparenta, si accapiglia e si riappacifica per intricare la trama di una telenovela che appassiona soltanto la platea dei lacchè di corte e pochi emigranti brasiliani. Il circolo magico del potere italiano ha come appendici una sessantina di milioni di dipendenti mesmerizzati dall'illusione di vivere in una democrazia a buon mercato.
E pertanto prima della resa del conto, distendiamoci e inquadriamo finalmente questa Expo "universale" per ciò che è: una fiera che ci porta a vicino a casa qualche idea confezionata del resto del mondo. Una somma sommaria di particolari e particolarismi che si compiace di sfarzi e piatti caldi, toni imbonitori e suadenti promesse, proprio come in ogni sugosa sagra paesana. Expo non cambierà l'ITalia. Nell'attesa, come nostro italico costume, facciamo festa.
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