sabato 11 aprile 2015

Le furie della rivoluzione



Un bel sogno è ricco di sostanza, la sostanza che fa da trama alla realtà. Nella notte bar di Barcellona si intrecciano a locali coreani dove l'arredo Val più delle pietanze. Ho attraversato decine di soffitte collegate da un sali scendi di scale di legno scricchiolante, intonaci freschi dal bianco al giallo asburgico. E le ho trovate ospitate: cani ciechi marmorizzati che ho liberato dalla prigionia in un tunnel dove gorgogliavano le tubature di vecchi scarichi, fantasmi di teneri gattini grigi, morti di malattia dell'umido, giocosi custodi di mucchietti di soldatini (l'ottava armata Airfix e i misteriosi incursori del deserto, più qualche nordista e legionario straniero). Seguendo i mici mi accorgo dell'abbaino che offre uno scorcio di campagna dopo la pioggia, i raggi del sole si riflettono sull'erba di verde smeraldo rimasta spiegazzata dal vento. 

Mi sporgo e scopro attorno il lungo davanzale che digrada sul tetto il formicolare di un formicaio: corpicini neri, alati, trotterellano sulle travi venate indecisi se spiccare il volo o attendere un richiamo più deciso del sole. Non sanno se sia tramonto o alba, la tempesta ha rovesciato l'ordine delle giornate. Vorrei sporgermi di più, vedere il cuore della metropoli alata, ma il davanzale lo impedisce e il flusso del sogno mi conduce via sotto un cielo che sa di mare, in un parcheggio vuoto, vicino a una delle tante casematte del turismo a fil di playa. Si avvicina una conoscente che cerco di evitare saltando su una piattaforma di cemento, probabile indizio di costruzioni interrate, ma mi nota ugualmente. Mi saluta con enfasi confidenziale abbastanza inutile e lamentando fretta e raccomandandosi inezie tanto per risottolineare il suo ruolo di massimo impegno nella vita, se ne va. Io eseguo il contrario, ossia vado nella direzione opposta ai suoi desideri, parallelo all'estensione intuibile della spiaggia. 

C'è sabbia sull'asfalto, sul cemento e si alza in mulinello soffiata da un vento che cresce. Grida in lontananza, teloni che sbattono. Trovo rifugio in un semivicolo, uno spazio tra due costruzioni di cemento grezzo, non finito. La tempesta di sabbia aumenta di intensità, è qualcosa di serio, anche se non eccezionale per la zona. Davanti a me, nella costruzione bassa c'è una specie di atrio, è come se avessero lasciato aperta una parete. Entro, cammino sulle piastrelle in finto cotto lucido, dove la sabbia non fa presa, è come se fosse respinta. 

Altri passi e la scena muta in un grovigio di sterpi che fa da tappeto e pareti. Dietro di me sento ancora il vento che infuria, ma di fronte lo scenario è calmo: c'è la campagna. Una campagna spoglia a dire il vero, sotto una luce bianca come gesso. Alberi neri senza fronde fanno da guardia a una marcita. Al mio fianco si rivela una giovane, ha un che di hippie agreste, nei capelli lunghi e nella gonna con grembiule. Mi invita a seguirla sul tappeto di sterpi e radici secche per inoltrarmi nella marcita. Si sente una musica tenue che la esalta e prende a danzare spingendosi in mezzo all'erba acquitrinosa. Qualcosa non mi convince, la inquadro meglio: somiglia ai ritratti delle furie della rivoluzione francese, le fanatiche che accompagnavano i prigionieri al patibolo. Poi il fatto che non tocchi il suolo, ma semplicemente lo sfiori mi fa nascere altri sospetti che non formulo consciamente, ma pesano. Mentre la guardo danzare, la sua copia rispunta al mio fianco e mi illustra la promessa di vita eterna: basta seguirla. Io malfidente liquido tutto come una truffa zingaresca, voltò le spalle e torno alla tempesta sabbiosa.

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