giovedì 18 giugno 2015

Emergenza cosmomigranti


A-Normal: E' tornata Astrosamantha.

B-Normal: Embe'? Bella roba! Un'altra da mantenere a sbafo!

A: Scusa?

B: Ma sì, se ne stanno con quei barconi sei mesi nello spazio e poi pretendono di venire qui e avere tutto pronto e spesato: alberghi 5 stelle, connessione Wi-Fi, 35 euro al minuto e montascale Alemagna gratis. Ohe', ma dove siamo? 

A: Ma guarda che lassù è dura, rischiano la vita ogni giorno per fare studi scientifici.

B: Anche qui è dura e ogni giorno ti portano via qualcosa: se non è il governo, è il comune, se non è il CERN, sono i gruppi astrofili. 

A: In effetti gli astrofili danno un po' fastidio: sempre in mezzo alla strada con il naso in su a guardare la luna e le stelle. Cioè, un minimo di decenza!

B: Macché! Ma renditi conto che questi non si vogliono integrare, non gliene frega niente. E noi stiamo qui a pagare la bolletta degli osservatori astronomici!

A: Già... anche io una volta avevo un telescopio per guardare la Luna, ma poi mi sono trovato un lavoro. Adesso c'è poco da star lì a contare i lumini della via lattea...

B: Io non sono razzista, cioè Von Braun finché faceva le V2 lo potevo anche capire, c'era una ragione storica, c'erano gli obiettivi del nazionalsocialismo... ma adesso cosa ci facciamo con tutte queste razzate? Una volta c'erano anche in Italia le leggi razziali, ma le hanno abolite. Solo che abolita la legge, trovato l'inganno: e continuano ad andare su con i razzi di quei Russi astroscafisti. Tutto pagato da noi! E poi questi qui stanno in giro in orbita a spese nostre! Bella la vita a gravità zero!

A: No, però daì. Non sarei così drastico, dopo tutto i cosmonauti vengono da situazioni difficili, allucinanti, dove non c'è democrazia ma programmi di lancio, tabelle di marcia, piani di rientro. E se sgarri muori, se si sgancia un pannello finisci in fondo al cosmo o arrostito dalle radiazioni. 

B: Sì, ma questi qui se la sono cercata loro, mica come i nostri Marò che facevano il loro dovere. Eh? Eh? E i nostri Marò chi li aiuta più?

A: Ma cosa c'entra?

B: Ma certo che c'entra: ci sono italiani che non arrivano alla metà del mese, che rovistano nel pattume per mangiare, gente che si è fatta un mazzo così per una vita e questi astrorazzisti vengono qui e pretendono di essere serviti e riveriti! Solo in Italia uno schifo simile, vorrei vedere io in Svizzera o in Turchia.

A: Potrà anche non piacerti, ma siamo in Europa: ci sono delle leggi, dei trattati da rispettare...

B: Bella roba! Da rispettare quando fa comodo a loro. Con sta storia della moneta unica non ci rimarrà in tasca che una sola monetina.

A: Ah, ah Ah! Stai esagerando. Come nazione abbiamo anche il dovere di mostrare un po' di solidarietà verso questi cosmomigranti: altrimenti che figura ci facciamo col resto del mondo?

B: Facciamo la figura dei pirla!!! Io non sono Legoista e non ho mai votato quelli del Carretto, ma Solventi ha ragione: aiutiamo i cosmonauti a casa loro! E su Bajkonur passiamo con le ruspe!

A: Esagerato!

B: Ah, sì, allora visto che tipiacciono tanto i figli delle stelle, il prossimo carico di Astrosamante portatelo a casa tua!

A: ....?

lunedì 8 giugno 2015

Il delitto imperfetto della dolce Anna



Una mite e laboriosa domestica, una coppia della borghesia cittadina in cerca d’affermazione, un nipote irrequieto e faccendiere; sullo sfondo un Paese in fase d’assestamento post rivoluzionario e una città, Budapest, in cerca di una nuova identità.

In questo contesto fiorisce “Anna Edes”, un romanzo sorprendente e non facilmente classificabile che, forse anche per questo suo carattere indefinito e sfaccettato, è un classico della letteratura ungherese. Scritto dal poeta, romanziere e giornalista Deszo Kosztolanyi (1885-1936), il libro venne pubblicato per la prima volta nel 1926 e nonostante la distanza temporale subito colpisce la freschezza della scrittura: una prosa accattivante che si tuffa negli angoli del racconto e nelle qualità dei personaggi con un divertito vigore. Merito anche della rinnovata traduzione di Andrea Renyi e Monika Szilagyi per Edizioni Anfora, attente ad interpretare le originali sfumature dell'autore. 

Kosztolanyi infatti coltiva il piacere della parola e la porge con gentilezza in un racconto vivido, dal taglio moderno e cinematografico ma attento al particolare, capace di delineare i tratti psicologici dei personaggi con la perizia di un ritrattista. Le pagine di Kosztolanyi ci portano a spasso per Budapest, ci introducono nei ritmi e nei pensieri dei suoi abitanti con la consumata abilità di una guida che non deve venderti nulla, ma gode del suo stesso racconto senza perdere il filo. 

E la trama che sembra così piccola ed esile, con questa Anna tanto algida ed enigmatica che va a prestare servizio in una casa di "illustrissimi" signori, presto avvolge il lettore: la storia minima di una servetta nella grande città racchiude in realtà l'affresco di un mondo intero. Scene con fioca luce e lunghe ombre, musica jazz e fuliggine di spazzacamini, intrighi ministeriali e di portineria, sotterfugi servili e dilemmi padronali. Finché i piccoli drammi quotidiani e le gioie materiali di un equilibrio apparente sono troncati da un delitto atroce che vuole restare senza movente. Eppure quel crimine muto dice moltissimo. Anna Edes infatti parla del potere e delle rivoluzioni, del desiderio e dell'umiliazione, dello spirito incalpestabile e della natura dell'animo umano: è un frammento del mistero della vita e della morte. Un frammento letterario levigato a specchio, dove lo stesso Kosztolanyi, da scrupoloso cronista, decide infine di posare lo sguardo, come per dirci che nel racconto umano Anna Edes ci siamo anche tutti noi.


ps
Perdonate se non ho messo neanche un accento ai nomi ungheresi. E' pigrizia, lo so.
Andate sul sito di Edizioni Anfora e sarete risarciti ;-)

pps
Edes in ungherese significa "dolce"

domenica 7 giugno 2015

War & Fury



Hanno l’espressione tesa e gli sguardi persi di chi si è spinto oltre il limite delle proprie forze troppe volte. Volti lividi che hanno dimenticato le emozioni e corpi ridotti a fasci di nervi strizzati nelle divise luride, impregnate di sporco e polvere da sparo. Sono i carristi di Fury, capitanati da Wardaddy – Brad Pitt nel cuore oscuro del nemico nazista: Germania aprile 1945, un mese prima del VE day. La sconfitta è già scritta sul libro della storia, ma gli uomini ancora non lo sanno e continuano a uccidersi e morire. E’ la parte più oscura di questa eclisse della ragione che si chiama guerra: il vento si è portato via le ceneri degli entusiasmi della prima ora e anche le paure e le angosce del battesimo con l’orrore della morte. Quello che resta è la contemplazione della sofferenza, il desiderio di tenerla lontana anche soltanto un minuto in più del tuo nemico: è sopravvivenza.

Detto ciò, il film non mi ha convinto molto. Nell'esposizione c'è disequilibrio: alcune parti prolisse, alcune dilatazioni poco funzionali al racconto, battute ritagliate da libri che dovrebbero dare profondità e invece sembrano medaglie alla memoria. Dei retroscena dei personaggi si dice poco, ci sono spizzichi e parole sfuggite, ricordi strozzati, tutto è giustamente schiacciato sul presente. Eppure sulla via spuntano declamazioni filosofiche, pragmatiche, certo, ma un po' troppo pensate a tavolino per un gruppo di combattenti che la crisi di nervi l'ha passata da un pezzo. 

L’idea – penso – sia quella di farci vedere la guerra attraverso la rapida e brutale formazione di un sostituto. Non è come nelle “comode” camerate di Full metal jacket, il novellino della seconda guerra mondiale sbattuto in prima linea non aveva tutto quel tempo: 8 settimane di addestramento e poi in tutta fretta eccolo a riempire i ranghi di una pattuglia di disperati. Sì perché tali erano i carristi americani: lo Sherman era una modesta caffettiera comparata ai Tiger tedeschi. E’ noto che i carri Usa erano soprannominati “ronson”, perché bastava un colpo (subìto) per buttare fiamme, proprio come diceva la pubblicità degli accendini. La prospettiva di trasformarsi in una torcia ambulante era un incubo ben presente agli equipaggi. 

Il "duello" con il Tiger testimonia in maniera fedele l'esito di un incontro con un simile peso massimo corazzato. Hai soltanto un'arma contro un mostro del genere: il destino. Se la tua ora non è giunta, non è giunta. Non ci sono più speranze, né fortuna, nulla che tu possa fare chiuso in quella scatola di latta, devi soltanto fare il tuo dovere e attendere di vedere se la morte girerà la carta con il tuo nome.
Wardaddy questo sembra averlo capito: già all'inizio del film ti rendi che quest'uomo sfregiato e strapazzato dal dolore ha dato tutto, non gli rimane che il mestiere di uccidere. E quando è costretto a seppellire uno dei suoi, forse viene colto dall'intuizione di un presentimento: la magia è finita. Gli orizzonti dello scontro si sono ristretti: Nord Africa, Normandia, Belgio e ora Germania. Poco spazio di manovra, troppi lupi travestiti da pecore. I margini per la vita sono ridotti a un filo, a una linea tracciata su una mappa attorno ad un incrocio. 

Lo scontro finale, uno sorta di Termopili con artiglieria pesante è poco credibile e, nell’ambientazione in prevalenza notturna, anche poco noioso visivamente parlando. Perplessità anche sulla chiusura che vuol dire non dicendo, lasciando ai cervellotici la corretta interpretazione o il tirare le somme.
C'è chi parla di continuità con Salvate il soldato Ryan, ma non la vedo proprio. Altra narrativa, altre atmosfere. Mi pare - forse - più vicino a Big red one, con il monumentale Lee Marvin. Pitt si è costruito una bella parte, ma mi è parso troppo enfatico nella resa del personaggio. Un soggetto che alla fine non  è ben chiaro se sia il protagonista, perché la scena gliela ruba il racconto stesso, ossia il vuoto della speranza che accompagna la guerra. Detto così Fury potrebbe essere un buon prequel per Germania anno zero.
 
Ps
Tra le pubblicità obbligatorie pre-proiezione ho notato con una certa sorpresa quella di Sky: cinema casalingo on demand. E in una sala cinematografica mi è parso come parlare di corda in casa dell’impiccato. Ma ormai alla pubblicità chi ci bada più...
 

martedì 2 giugno 2015

Per la via, 2015


La scena si svolge su 50 metri di strada. Lui e lei in rotta di collisione sul marciapiede. Avranno vent’anni scarsi e sotto il sole del primo pomeriggio sembrano ancora più giovincelli. 


Lui biondo e bianco latteo, con un paio di calzoncini corti neri ma non attillati. Ancora troppo imberbe per coltivare la peluria dell’hipster, però già indirizzato in tal senso, vista la scelta di tenere la zazzera a fungo. La magliettina rivela un corpo massiccio non ancora appesantito da eccessivi accumuli di grassi. 


Lei indossa una camicetta avorio e un paio di pantaloncini bianchi che fanno volume nelle regioni basse. Ha una bella frangia di capelli castana che il poco vento di giornata stuzzica attirando sguardi. Una figura gentile e occhialuta con un bel passo morbido e spedito, da godere anche senza le scoperture di ancheggiamenti ammiccanti. 


Si avvicinano e non si vedono: il capo chino a consultare i rispettivi smartphone. Persi nei giga e nei mega di mille suggestioni lontane, nelle chat e nei post di amici immateriali. Sembra una candid camera da riproporre a ripetizione sul web. Finiranno per scontrarsi? Si accettano scommesse. I pochi spettatori fisici trattengono il fiato e si irrigidiscono nell’attesa. La risata registrata pronta a scattare. 


Ma lo schianto è sviato. Un silenzioso radar interiore, come una app mentale, avvisa i due giovani naviganti urbani che si sfiorano ampiamente e proseguono la marcia tranquilli, indifferenti. E si rituffano negli schermi dei cellulari. 


Delusione. Oh, ai miei tempi…si sarebbero mangiati…lui non le avrebbe dato tregua…lei lo avrebbe tenuto al guinzaglio. Oggi…oggi solo telefonini. Abbiamo forse assistito alla celebrazione del declino dell’occidente? O ad un mesto rimbambimento tecnologico? Una gioventù che si ignora è forse l’anticamera dell’estinzione di un popolo?


Ma si ignorano davvero? Ecco che il giovane ha un guizzo di spalle, la testa ruota come in cerca di un assist invisibile e la direttrice dello sguardo finisce per calamitarsi alle forme che danzano dentro i calzoncini di lei. Ed è subito un bagliore di speranza.

 

lunedì 1 giugno 2015

Exponte aereo



Alcuni seguidores di Club Zahir indignati lamentano una cantonata nella nostra previsione sui numeri di Expo. La quantità di visitatori denunciata in anteprima non collima con la cifra fornita dall'ammiraglio Pizarro Saltinpadella Sala. Da due milioni a due milioni e 700 mila, la forbice è ben larga. 

Ebbene l'inghippo è presto svelato: la mal digerita anticipazione della chef Julienne Assange è stata affrontata di petto dallo staff comunicazione di Expo che è corso trafelatamente ai ripari nel bar sotto l'uffici e dopo due robusti Negroni e una torta California maki, messi sul conto spese regionale, ha escogitato la soluzione. Un ponte aereo! Seicento Boeing Esselunga special carichi di aiuti umanitari da somministrare a qualche disperata massa di nullatenenti africani o estremorientali terremotati sono stati dirottati negli stabilimenti della Manciuria, svuotati dei generi di prima necessità, e poi ricaricati di migliaia di turnisti delle 22 - 5 (vorrà dire che la Cina avrà un sussulto del pil nella misura dello 0,0001 per cento). 

L'altra sera il grande convoglio aereo ha paracadutato gli operai cinesi su Expo, muniti di biglietti già vidimati. A parte 430 caduti nei canali e nelle vasche (le famiglie saranno indennizzate con biglietti omaggio e il bel calendario dei ministri del Pd) ben settecentomila hanno centrato l'obiettivo. Alcuni sfondando coperture e vetrate minori, altri adagiandosi sui coni delle gelaterie mobili e dj set. Gli sfortunati parà rimasti appesi all'albero della vita, scambiati per una performance di danza verticale e quindi molto applauditi e taggati, sono stati lasciati lì fino alla mattina. Fu più compassionevole il tenente colonnello Vandevoort del 505 ne Il giorno più lungo. Ma Expo è implacabile: eresia di una vita, nitrire per la pineta.