sabato 29 novembre 2014

Giacche bianche e camici da laboratorio




Vado al lavoro in auto, percorso numero uno. Scorgo un ex collega in bicicletta che mi vede ma finge di non riconoscermi. Nei pressi di un ponte ferroviario la strada è bloccata. Non è esattamente il solito percorso: si tratta Di un incrocio stradale sotto la ferrovia. C'è stato un incidente, almeno così penso mentre parcheggio la macchina lungo il marciapiede. In giorno ne polizia ne vigili del fuoco. Vedo l'ex collega che sgattaiola nel tunnel. Ci sono resti auto e cadaveri ricoperti di garze e bende come mummie. Un uomo con le gambe amputate sotto le ginocchia si agita nella carcassa di una vettura sventrata. Tutto è così polveroso e asciutto che ho l'impressione di una messa in scena da esercitazione. Dove sono i soccorsi? L'idea mi verrà solo dopo: quell'incidente è accaduto anni prima. Vengo tampinato da un premuroso signore che fa il custode del tunnel. Sì, perché lì sotto c'era un garage privato di una ditta, cose degli anni '50, poi la ditta si è trasferita e hanno lasciato lì il custode che è diventato un addetto del comune. Il signore continua a lamentarsi del traffico, scuote la testa "troppe auto per il tunnel". Faccio notare che piazzare un incrocio qui sotto non è una buona idea per snellire la viabilità e mi da subito ragione quasi balbettando per l'emozione. 


Ad ogni modo dovrei andare in ufficio, almeno per segnalare la mia presenza. Ma visto che la sede si trova dall'altra parte del tunnel devo risalire la scarpata del passaggio ferroviario. Ci sono altre persone che lo fanno. Un percorso innocuo solo in apparenza. Inizia con un lieve pendio, poi diventa una scalata e la parete e coperta d'erba verde e umida che non favorisce la presa. Lungo il percorso però c'è una corda, che si rivela un pratico filo spinato. Quindi per salire ti devi aggrappare badando a non bucarti le mani. Giunti in prossimità della cima non ci sono appoggi per le gambe, occorre fare l'ultimo tratto a forza di braccia. Sinceramente non mi fido. Altri però mi superano. Una donna dalla cima erbosa mi incita a proseguire con convinzione. Sento che gli altri si godono il panorama è chiacchierano: non potrebbero darmi una mano? Niente, faccio da me. Chiudo gli occhi e procedo stringendo i pugni sul filo, tengo la schiena contro la parete della scarpata per puntellarmi, anche se facendo in questo modo perdo il senso dell'orientamento. Quello che so è che devo avanzare lungo il filo, una mano dopo l'altra. Proseguo così lottando contro la vertigine per diverso tempo finché non sento più voci. Mi accorgo però che sono disteso sulla schiena. Riapro gli occhi: cielo azzurro e un grande prato verde di montagna. Più in là scorgo una costruzione stretta e lunga dai muri bianchi. Mi sembrano le basi in cemento armato per la rampa di un sovrappasso. Attorno alberi da frutta e degli orticelli.


Il posto è governato da un prete: un ometto sulla cinquantina con occhietti tondi come bottoni, azzurri e penetranti, e un pizzetto sale e pepe. Tutti lo chiamano il don, indossa un gilet nero sul quale pende una collanina con crocifisso d'argento, anche se ho qualche dubbio che l'abito faccia il prete. È il responsabile di una specie di centro di recupero da non si sa cosa, forse dallo stress, abbinato a un ricovero per bambini che non paiono orfani, alcuni sono qui con uno dei genitori. Sono esausto per la scalata, svengo. Quando riprendo i sensi sono in una sala che pare l'atrio del centro, il prete mi fa il ritratto psicologico: sei così sei cola', strano che tu sia capace di tanti sogni, dove li prendi? E poi viene la proposta di restare per ristabilirmi. Dico che ci voglio pensare. Mi fa ok e va a occuparsi d'altro. Scopro che posso girare soltanto al pianterreno e che gli ospiti e gli addetti si confondono indossando camici bianchi e giacche o pantaloni da infermieri. Gli unici in abiti normali sono i bambini. Anche io indosso pantaloni di tuta grigio chiara e una giacchetta di tela bianca.


Gli ospiti sono tutti cordiali, ma nessuno rivela nulla sul perché della sua presenza al centro. Bambini e genitori mi danno l'impressione di essere scappati da un familiare violento. Parlano piano, quasi sottovoce e sorridono cercando di scansare l'ira con la mansuetudine. Nell'aria c'è infatti un'atmosfera di serenità artificiale che dopo un po' diventa stucchevole. Sono tutti presi da riunioni, incontri. Mi propongono di riprendere gli studi, il centro offre la tranquillità necessaria e i metodi più efficaci: nella sala atrio ci sono tavolini tipo banchi di scuola, poster e testi che sanno di condensati universitari. Immagino sia una delle attività del centro. La cosa mi solletica, ma dovrei avvisare l'ufficio. Mi sorridono come per dire non ce ne è bisogno. Prendo tempo, mi metto a giocare in una saletta con i bambini e qualche mamma: ci sono un sacco di giochi colorati di plastica. Ovviamente raccatto subito dei soldatini e inizio a spiegare le regole di un wargame a un bimbo. Dopo un po' questo si annoia e va a giocare fuori con gli amichetti, la mamma si scusa. Io dico non fa nulla. Ma intanto sono solo e scatta il piano d'evasione.


Esco da un altro ingresso, quello che porta nella zona degli orti. Alcuni ospiti in camice bianco stanno trafficando con le piante di pomodori. Io allungo il passo, qualcuno mi grida qualcosa. Io volto la testa, sorrido e annuisco, ma continuo a tenere il ritmo veloce. Accorrono altri tizi in camice bianco. Ormai la fuga è scoperta e diventa una corsa. Anche se quelli che mi affiancano non mi bloccano, corrono insieme a me. Ho dei compagni di fuga. Prima di arrivare al frutteto sbucano altre giacche bianche che frenano tutti quelli che corrono. Nasce un parapiglia e io cerco di sgusciare via. All'improvviso si sente un urlo, un ruggito: uno dei camici bianchi si sta trasformando in un colosso muscoloso. Sprigiona rabbia. La scena diventa un fotogramma in bianco e nero. L'uomo ha addosso brandelli di vestiti, digrigna i denti bianchi, attorno al collo taurino i resti del camice gli fanno una bizzarra corolla, sembra Hulk vestito da Kermit la rana. Poi noto i capelli neri e lucidi a caschetto, stranamente simili a quelli del bambino con cui ho giocato. Urla: basta, basta. E tutti cercano di rabbonirlo a distanza. Vedo che arriva il prete e mi sgancio per tornare al Centro.


Mi pare chiaro che nessuno mi sta cercando, che il prete non è tale, ma don è forse un appellativo per un santone della medicina o similia. Forse ha stretto un patto con le autorità per farsi carico di soggetti marginali o problematici. Anche io?

Arriva la notte. Uno degli inservienti mi mostra il dispositivo di sicurezza anti intrusione. Lo fa con una naturalezza tale che intuisco la trappola. O forse è tutta una messinscena per scoraggiare i potenziali fuggitivi? Fingo di addormentarmi su una poltrona nell'atrio. Poi quando cala il silenzio raggiungo le scale e arrivo al primo piano. Uno dei camici bianchi spalanca una porta tagliafuoco con una stretta feritoia vetrata. Attendo acquattato nel sottoscala il suo passaggio e di nuovo salgo per aprire la porta. Ma si apre solo dall'interno. In quel momento una donna con la bustina da infermiera in testa apre. Colgo l'occasione al balzo, entro a testa bassa bofonchiando un "grazie". Prima che possa dire qualcosa ho imboccato il corridoio, in tutto e per tutto simile a uno stretto corridoio di ospedale: pareti color tenue acquamarina, piastrelle giallo ocra, finestre sigillate e oscurate, c'è solo luce artificiale a parte due vetrate alle estremità del passaggio che dovrebbero far entrare la luce solare. Ci sono poche finestre sul lato interno, segno che le stanze sono ampie. È dalle serrature ad apertura con badge elettronico devono essere più dei laboratori che delle sale di degenza. Mentre studio le sigle che contrassegnano le porte mi sorprende un medico, almeno tale mi sembra: occhiali, capelli neri ondulati, con il naso infilato sulla sua cartella e lo stetoscopio al collo. Mormoro un "salve" e rapido giro l'angolo dove trovo una nicchia con poltrone, ficus, e un tavolino con riviste sfogliate. Arriva un altro camice bianco, questo ha l'aria di un tecnico, è rugoso e paffutello, con la barba ispida. Sembra il fratello gemello sfatto del prete. Si accosta a una delle finestre sigillate e poi apre un piccolo oblò che non avevo notato prima. Si guarda intorno furtivo, ma io sono protetto dal fogliame del ficus, e poi caccia dentro il braccio destro. Si sentono gridolini e squittii. C'è qualcosa di malsano nel suo gesto. Non contento tira su la mani e infila il braccio sinistro. Mi sembra di ravvisare delle grida femminili o di creature terrorizzate. Il tecnico fa una smorfia e reprime un urlo con un sospiro profondo. Estrae il braccio e richiude l'oblò. Il braccio è arrossato e pulsa gonfiandosi a dismisura, come la chela di un granchio, mentre il tecnico annaspa stringendo gli occhi per il dolore. Qualcosa deve averlo morso o punto. Forse sta per schiattare. Invece il braccio si sgonfia, il respiro torna normale. Il tecnico tira fuori dalla taschino un block notes e scrive qualcosa mentre si allontana. Anche io prendo la stessa decisione. Troppo rischio per un uomo solo.


Come prevedevo la faccenda dell'allarme era un bluff. Ho superato porte, orti e giardino senza problemi e senza essere intercettato da nessuno. Mi allontano dal centro immerso nel buio camminando sull'erba e seguendo le luci della città che si stendono sotto di me. Ci sarà pure una discesa accessibile. Sento i piedi umidi, mi accorgo che indosso dei sandali aperti e le calze si stanno inzuppando. Dove sono le mie scarpe? Il pensiero si manifesta come una fitta dolorosa che mi scuote. Dove sono le scarpe? E la domanda senza risposta si trasforma in furia. Le luci della città si annebbiano sovrastate dall'onda di marea dell'ira. Sono sorpreso dalla rivelazione della mia stessa rabbia, ma non so fermarla.

giovedì 27 novembre 2014

La notte dei Super robot: 40 anni dopo





L'idea era di vedere "l'effetto che fa". Tornare al cine per vedere un film a cartoni animati visto 40 anni fa. Sì, parliamo del secolo scorso. Dopo aver lanciato qualche invito vanamente, mi sono avviato da solo alla Notte dei super robot parte prima. In scena Mazinga Zeta, Grande Mazinga e Getter robot con guest star l'Uomo diavolo; tutti usciti dalla penna del maestro Go Nagai. Rivedere su grande schermo gli eroi di un tempo mi intrigava. Quali confronti! Quali ispirazioni!

Principiamo dalla cronaca. In provincia solo un cinema proponeva la serata, quindi scelta obbligata, meta la cattedrale del cinema in versione multisala. Arrivo all'ultimo spettacolo mi accodo dietro teenagers che scalpitavano per Hunger games, qualche coppia che si sacrifica per la commedia con Bova e Cortellesi (ueh! Siamo moderni!) e altri maturotti e anzianoidi che scompaiono nelle pieghe di un palinsesto che va dai cartoni sui pinguini al Ragazzo invisibile di Salvatores. Io da bravo cliente ho già memorizzato numero di sala e quando arriva il mio turno saluto la cassiera e dichiaro. Mi chiede se va bene il posto centrale. Come no. Poi dice dieci euro. E li per li ricevo una invisibile cinquina: ma come? La super notte? Richiami gli appassionati, li inviti, li lusinghi e poi li bastoni mentre cercano di riempirti un mortissimo lunedì sera? Dieci euro. Cinema in crisi. Registi in crisi di identità. Crisi di nervi attoriale. E col cazzo che mi beccate un'altra volta... Faccio del mio meglio per non inarcare il sopracciglio vulcaniano davanti all'incolpevole cassiera e aggiungo impassibile alla banconota da cinque già pronta sul bancone, cinque monete cinque che pesco dal fondo della tasca del giaccone. A sto punto la già pianificata rinuncia alle lusinghe del classico pop corn diventa una ragione di principio. Anzi vi lascio io qualcosa, vado a pisciare. Nei bagni, a dire il vero lindi e splindenti, aleggia una nuvola di gas intestinali mutanti. Sbrigo la pratica rapidamente nel timore che il miasma sia adesivo, poi boccheggiando trovo un tavolino per attendere un'ora degna per l'entrata. Certo, sono arrivato in largo anticipo. Non tanto perché mi aspettassi di vedere nel parcheggio la flotta di Vega in licenza premio, ma perché i cinefili che disertano il weekend inseguendo sconti e promozioni sono una variabile che non ho intenzione di calcolare. Meglio arrivare prima e fare poca fila che palleggiare acceleratore e frizione nel brivido del rush finale.

Mentre me ne sto comodo l'inserviente da una pulitina sistemando sedie e di certo mandando "affare" quel vecchio che gli occupa il tavolino. Ma io sono preso dal dilemma del dolcetto. Ho il distributore a fianco che giallo caramelloso mi sussurra: dai, dai prendi, e che saranno mai due euro. Due euro dopo il salasso del biglietto sono la pernacchia dopo il furto. Eppure qualcosa dentro di me dice che anche questo atto del rito di commemorazione va rispettata. Come un 4 novembre senza corone d'alloro ai caduti. È così che l'operazione in puro stile Fantozzi si completa con l'acquisto di una busta di M&m formato mignon. Quando precipita nel vano raccolta posso indovinare il numero delle noccioline presenti dal rumore. Sono 45 tristissimi grammi. Va be, facciamo finta che sia tutta salute. E poi le riserve di cioccolato mondiale si stanno esaurendo. Forse io ho già mangiato la mia parte.

Visto che non ho più nulla da inventare a un quarto d'ora dall'inizio della proiezione entro. Varco la porta e mi affaccio nella sala...vuota. Anzi no, dalla montagna di poltrone spunta la testolina di un indigeno. Ma sta troppo in alto per familiarizzare, il biglietto mi colloca in posizione centrale. Praticamente starò nella cabina di pilotaggio del Pilder insieme a Koji Kabuto. Passano minuti e dopo aver silenziato il cellulare e scarabocchiato appunti temo che il flop si stia concretizzando (ecco perché 10 euro, maledetti malfidenti), invece ecco che entrano babbo, zio e bimbo. Il bambino, troppo piccolo per aver visto un Mazinga anche solo in replica satellitare, deve essere il depositario delle speranze di papà di tramandare il culto dei robottoni. Applauso. Altri minuti e alla spicciolata entrano fidanzati con amico, duo di amici, mamma e figlia. La direzione ci regala qualche minuti di pubblicità, giusto perché abbiamo pagato un biglietto scontato... Ma gli spot sono talmente veloci che mi inquieto: forse ho perso l'abitudine alle proiezioni in grande schermo. Forse ho la vista affaticata. Niente paura, la direzione piazza a tutto schermo l'avviso che ci farà vedere un cortometraggio di 6 minuti. Peccato che l'avviso resti lì fisso per circa un quarto d'ora. Nel frattempo arrivano altri ex ragazzi: capelli radi, che gli sembrano scivolati nella parte bassa del volto, barbuti per compensazione pilifera. Una fidanzata sottolinea che il suo preferito è "goldrek" e verrà a vederlo se le cambiano turno di riposo. Altri sfoggiano copri cellulare con Grendizer, ma in generale i discorsi sono sintonizzati sui cavoli amari di tutti i giorni: il tetto che perde, il contratto di secondo livello, il "lo chiamo non risponde gli mando una mail" e altre amenità. Il cortometraggio si rivela una serie di trailer di film a cartoni animati. E dopo i saluti dei promoter arrivano finalmente gli scogli. Come quali scogli? Quelli che stanno all'inizio di tutti i film Made in Japan, quelli dove prende il sole Godzilla prima di abbattere la Tokyo tower, quelli che fanno da barriera allo tsunami (non tutte le volte) contro le invasioni nemiche. Insomma quelli della Toei film.

Mazinga Z contro Devilman (titolo che non si capisce perché i due eroi buoni non combattono neanche per un minuti, a parte una psichedelica gara di motociclette. Ma fa parte di una diabolica strategia di marketing nipponico che sfugge alle nostre piatte menti occidentali) viene servito come prima portata. Subito mi colpiscono i colori piatti, che nella grandezza dello schermo risaltano di più. E poi le proporzioni lisergiche, senza rispetto delle prospettive. Comincio a sospettare che qualcosa non vada per il verso giusto. Questo film del 1973 non è certo stato concepito per il 16:9 della sala, non è che hanno fatto una conversione ardita (a casa ho controllato eccome: il film era in un amplissimo 16:9 ma è stato strizzato). Boh, la sensazione di un disordine nelle proporzioni mi è rimasta per tutta la visione del primo episodio (alias mediometraggio)è quindi terminato senza infamia, però vista la qualità non è di sicuro il grande schermo lo scenario ideale per le sue performance, la tivù di casa basta e avanza. Ho teso pure l'orecchio alle voci dei doppiatori, alcune mi parevano uguali all'originale, altre decisamente diverse. Bella l'idea di mettere i nomi dei mostri in italiano e giapponese. Eccezionale la trovata stile di inserire la traduzione delle canzoni della colonna sonora giapponese, un modo per rendere meglio il mood dei protagonisti e della vicenda.

Il film Mazinga Z contro Grande Mazinga è senza dubbio quello che ricordo meglio, anche perché avevo vinto con le patatine un marchingegno a manovella nel quale potevi sbirciare come un piccolo Buster Keaton. Nella cartuccia che avevo in dotazione c'era la scena finale del combattimento nell'arena tra i mostri guerrieri del Generale Nero e i due Mazinga. Scena epica a dir poco. Qui la resa su grande schermo è sicuramente elevata, forse i cambi di scena e gli stacchi di inquadratura erano un po' violenti, accelerati. I colori invece erano vividi e avvampanti come quando si erano stampati nella memoria alla prima visione, complimenti al restauratore. E va segnalato che il brain condor di Tezuia qui è regolarmente storpiato come in originale. Cioè braian condor (i Monty Phyton non c'entrano è tutta farina nostrana). E nel secondo episodio devo dire che le emozioni non sono mancate. Koji disperato, col fratellino in coma, che combatte come una belva contro i mostri ibridi meccanico-mutanti. Il Mazinga Z sbrindellato e mutilato che non s'arrende come da fulgida tradizione militar nipponica. E poi l'apparizione del Salvatore, un Grande Mazinga turbinante, letale e veloce, annunciato dal dottor Kabuto in versione profeta di sventure futuribili. Grande! Mancava solo la pubblicità dell'Ovomaltina.

Si arriva al terzo capitolo, per me un poco trascurato eppure ricco di piacevoli spunti fantascientifici. A partire dall'ufo, poi il mostro mangia metallo e la trappola sull'isola deserta. Un classico. Inoltre vedere in azione il Getter robot è sempre un piacere (spero sempre diano un po' più di spazio al Getter due, ma è come fare il tifo per Annibale). Ai tempi mi era totalmente sfuggita la chiave della rivalità tra squadre, semplicemente mi pareva inverosimile. Uno stratagemma narrativo per puntellare la trama, del resto i buoni stanno sempre dalla stessa parte no? Nel complesso la serata è stata gradevole. Al termine niente applausi ma la voglia c'era. Forse quei dieci euro sfilati pesavano un poco sulle mani. Alla prossima quindi? Magari, mica mi cambiano turno.

venerdì 19 settembre 2014

La grande rapina e il piccolo cittadino modello


 Passeggiavo per le vie di una città familiare ma non ben precisata. Erano calate le prime ombre della sera e dalle vetrine illuminate si potevano ricavare le prime impressioni di una giornata che spirava. Il mio passo era rapido ma non affrettato, non avevo appuntamenti, me la prendevo comoda. Capito davanti a una vetrina "oscurata" da una tapparella, di quelle regolabili da ufficio. Noto che nella parte superiore sbuca una mano: dentro c'è una persona con una mano sollevata. Ma non è un saluto o uno scherzo: il braccio resta lì e dentro di me inizia a suonare il campanello d'allarme.

Il negozio pare una banca, anche se è strano sia aperta così tardi. Estraggo il cellulare e mi fingo impegnato in una conversazione. Nel contempo piego la testa in modo da sbriciare tra le sezioni della tapparella che si estende per ben quattro vetrate. Mi si presenta così, congelata in un quadro vivente, la scena di una rapina. Seduti su banchi o in piedi, alcuni impiegati in camicia bianca sono imprigionati in artistiche gogne tecnologiche che li bloccano al collo e un braccio, oppure - forse per i più recalcitranti - la combinazione testa, braccio e gamba.

I rapinatori hanno capelli neri e lucidi, sono giovani e hanno le facce vagamente orientali nascoste da grandi occhiali da sole. Mentre passo senza accelerare l'andatura, come un lavoratore che ha inserito il pilota automatico verso casa, mi squadrano attenti: soltanto uno ha una pistola, gli altri forse per dissimulare l'assalto brandiscono dei grandi stereo portatili ghetto blaster. Non mi meraviglierei se fossero lanciarazzi camuffati.

Supero le vetrine e attraverso la strada, stavolta a passo di carica, tanto che mi ritrovo in una viuzza laterale e mentre mi dico "adesso chiamo i carabinieri", ecco che si ferma un'auto di conoscenti. Ciao che fai qui, vuoi un passaggio. Devo spiegare tutto e perdo minuti preziosi. Cerco di congedarmi bruscamente e torno all'incrocio mentre faccio il numero d'emergenza.
- Pronto?
Sento che sono in linea, ma il carabiniere sta rispondendo a un'altra chiamata. Metto giù e riprovo, mentre riattraverso l'incrocio cercando però di aggirare l'edificio. Sono stranamente lento, e' come se i vestiti mi fossero cresciuti addosso. La giacca ha delle spalline anni ottanta e i calzoni larghi sulle cosce che sembrano possedere vita autonoma come in un video di Mc Hammer.
Pronto, carabinieri?
Si, dica...
E cade la linea. Ormai sono davanti all'ingresso del retro, che scopro essere quello principale. Ci arrivo giusto in tempo per essere investito da un'ondata di avventori in uscita. Tutti giovani in camicia bianca e cravatta, ventenni in giacca e occhiali da nerd serioso che sorridenti si lanciano saluti. Penso che i rapinatori si siano mischiati nel gruppo costringendo tutti a uscire in massa. Poi lo sguardo corre all'insegna del locale, un grosso tondo nero sul quale spicca in lettere bianche la scritta: Al Capone bar pizza.

E' stato un abbaglio, era una messa in scena, una performance artistica ideata nel locale, un set cinematografico per un video a basso costo o una vera rapina? Ma soprattutto i carabinieri rintracceranno la chiamata e mi chiederanno spiegazioni?

martedì 29 luglio 2014

Forse non lo sai ma anche questo è orrore



Si sveglia nel grande letto avvolto da lucide lenzuola nere. Somiglia a uno di quei giovani attori di telefilm anni settanta con i capelli a caschetto. Qualcosa si muove, un fagotto strano, come un bozzolo. Sguardo di terrore: no, e' il figlio piccolo. Un bimbo di quattro anni. Dorme con il suo papà che ha fatto di tutto per tenerlo con se' quando la mamma se ne è andata. Pur di averlo, di vincere le cause e gli annessi burocratici il giovane papà ha venduto l'anima al diavolo. O qualcosa di peggio.

Quella notte ha fatto un sogno, battezzava i passanti con una lunga asta metallica, la teneva sospesa sulle loro teste e zac, diventavano suoi fedeli. Lo seguivano come un Messia. La polizia inizia a seguirlo, oppure fazioni di una setta concorrente. Si ritrova in una piazza e cerca di impossessarsi di un gruppo di ragazzine che fanno le guide turistiche. Le giovani lo conducono in un antico palazzo in rovina. Li' nei sotterranei c'è una massa di tessuto che pare una trapunta ricamata di seta d'oro: il cuore del mostro. E' il segreto della cittadina, una antica località di mare, ora meta turistica.

Si sveglia e accanto c'è il suo bimbo: e' pieno di graffi, la pelle rossa e infetta, come se fosse bucata da sottili artigli. Il piccolo non piange, si lamenta piano, febbricitante. Il padre e' disperato. Un dottore non potrebbe capire, gli toglierebbero il bambino. Ma come fare? Deve mantenere il patto, un accordo orribile.

Dormono in una specie di spoglio retrobottega. Una porta di apre, sono due signori, marito e moglie, che chiedono notizie del loro cane. Non l'avevano forse affidato alle sue cure? Lui non sa che dire. Il marito si indigna e sbotta facendo fremere i baffi bianchi da tricheco. La moglie dai bianchi capelli con riflessi azzurri invece ha quasi pietà per quel padre spiantato e il suo piccolo.

Se ne vanno, ma dalla stessa porta arriva un ragazzo in divisa da fattorino che gli chiede di restituire un altro cane. Il papà non sa che fare, davvero non ricorda, o forse non vuole ricordare ciò che sospetta. Di certo i cani non ci sono più. Il fattorino se ne va, ma la scena si ripete quando passano altri due corrieri. L'ultimo però è arrivato per una consegna: al guinzaglio ha uno strano esemplare di levriero afghano nero. L'animale ha il pelo folto come una pecora da tosare. Il papà afferra il guinzaglio e insieme al bambino esce. Ha un appuntamento.

domenica 27 luglio 2014

Sospeso su un gorilla a Napoli




Una notte di sogno a Napoli, durata pochissimo. Arrivo in treno intruppato nei ranghi di altri turisti con mille pretese. Mi dico "procedi per gradi" e cerco subito una cartina. Sul pavé scaldato dal sole le botteghe di souvenir straripano. Non mi fermo alla prima temendo la ressa. Vado avanti qualche decina di metri e adocchio su un espositore mappe da sette euro. Caspita, mica poco. Però l'alternativa è girare a vuoto.
Ma sono tallonato dalla solita famiglia Brambilla che a mattina inoltrata e visita neppure avviata, disquisisce del pranzo, bambini esplodono in periodici "papi guarda qui!" o "mamimamimami vieni a vedere!". Poi quando sono a tiro della bottega si apre il dibattito sul "ricordino" da portare alla zia di turno, ai vicini che guardano il giardino e l'allarme antifurto. Svicolo a mancina nel primo ingresso museale, una gradinata di un edificio angolare dalle pareti di pietra scrostate.
Dentro si vede poco, ma un grande ascensore passa attraverso le sale della esposizione. Così il visitatore non deve fare chilometri. Il problema lo scopro poco dopo quando mi incuriosisco su una installazione che sembra uno zoo ambientato in una officina sfascia carrozze. Quello che si agita sul fondo e' un gorilla vero oppure qualcuno lo impersona?
Allungo il passo e mi ritrovo fuori dall'ascensore - che si sposta su un altro piano - con i piedi su una trave legata a funi elastiche. Sono sospeso sulla scena artistica, forse ne sono diventato parte e c'è qualche telecamera che mi riprende per futuri sberleffi. Mantenere l'equilibrio non è facile, ci saranno quattro, cinque metti al massimo da terra, se cado bene non mi ammazzo ma serve attenzione. Mi accorgo che sopra di me pendono delle cinghie. Ne afferro una e attendo il ritorno dell'ascensore. Oppure il "CUT" di un ignoto regista.

giovedì 15 maggio 2014

Piccoli incubi con gli amici al cinema dell'oratorio

Mentre ci lascia un grande creatore di incubi quale H. R. Giger, accogliamo la nuova versione americana di Godzilla. Qui di seguito un ricordo intarsiato dei tanti sogni della nostra prima cinefilia.


Grida di incitamento durante la carica dei «nostri», schiamazzi al momento del bacio tra l’eroe e la bella , battute anticipate ad alta voce mentre bottigliette di gazosa sfuggite rotolavano verso le prime file. Il tutto con sottofondo sgranocchiante patatine e cigolii di sobbalzanti sedili di legno.

Scene e musica dai cinema oratoriali a cavallo degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, magazzini riattati alla pubblica visione, sale di proiezione ricavate in minuscoli soppalchi. Gli stordimenti sensoriali del dolby surround e dell’HD erano lontane milioni di chilometri di pellicola, ma ai giovani spettatori di allora bastava un lenzuolo bianco per vivere la magia del cinema. In questa atmosfera da salotto casalingo «allargato», le folte platee degli imberbi si godevano il rito pomeridiano del grande schermo a prezzo popolare.

Erano programmazioni miste dove l’avventura regnava sovrana spaziando dai colossal biblici agli spaghetti western, dalle produzioni della Disney ai classici della fantascienza. E in questo filone ad alto tasso di mistero e farloccherie l’ appuntamento con l’esotico Godzilla non mancava mai. Fumiganti astronavi razziformi, carri armati telecomandati, costumi alieni con mantelle catarinfrangenti e corazze in carta d’alluminio. E poi mini vulcani in eruzione pirotecnica, dighe di compensato frantumate come biscotti, terremoti ogni 15 minuti con trenini deragliati e il tradizionale ponte schiantato con le macchine che scivolano nel vuoto. Una sinfonia dell’apocalisse che aveva come solista indomabile il lucertolone radioattivo, spettacolare nell’emersione con strepiti dalle acque della baia di Tokyo come una venere degli orrori. A lui spettava la vittoria finale dopo peripezie che coinvolgevano i comprimari umani (scienziati, giornalisti, poliziotti, astronauti e studenti di prima media) reclutati per la suprema battaglia che aveva in palio la salvezza del Giappone o della civiltà umana, in ordine di importanza.

Storie prive di tempi morti, dai dialoghi minimali si «strappava» sulle esplosioni nelle metropoli causate dal nefando avversario di turno. Godzilla, in un escalation da torneo di wrestling, si prodigava in estenuanti scontri con mostri di pari categoria senza esclusioni di colpi... di coda. La catastrofe era così palesemente fasulla da apparire accettabile: un gioco dove l’incredulità non solo era sospesa, ma svolazzava come le squadriglie di jet a filo-propulsione.

domenica 2 marzo 2014

Quattro quadri e una sola cornice



Il negozio
In strada un espositore girevole con modellini in scatole di cartone di colore grigio, macchinine schuco, soldatini sfusi. Entro in negozio dentro una vetrinetta ci sono carri armati e blindati in resina e metallo. Vorrei vederli meglio, i proprietari mi fanno fare un giro e il negozio diventa un mini market con tanto di clienti che fanno spesa e si incodano alla cassa. Non riesco a comprare nulla anche se metto le mani su tre scatole di cartone muffo dedicate alla guerra di secessione americana. Dentro soldatini di carta e un misto di plastiche e scale diverse.

Il viaggio
Siamo in tre, con mio padre e mio fratello. Una visita in una città della east coast (Boston?). Appena fuori dalla stazione o da hotel ci dirigiamo in un parco e qui mi distanzio dagli altri. Incontro un personaggio in trench e feltro, un volto noto da avanspettacolo. Passo diverso tempo dentro una grande struttura dalle rifiniture in legno, forse un edificio ecologico. Qui recupero una scatola piena di schedine di gruppi musicali, una sorta di schedario radiofonico finemente decorato dal titolo Punk & Progressive.

Il telefilm
Una puntata di Wonder Woman o una sua parodia ambientata nel parco, proprio sotto i miei occhi. Gang femminili e teppisti da video di Michael Jackson. Lei si presenta con un giubbino di vernice rossa e il classico completo. Poi arrivano i cattivi e sembra un musical stile grease ma senza musica. Il capobanda ha fatto sparire due bambini, se li tiene in pancia proprio come il lupo cattivo. Soffre perché ci metterà giorni a digerirli e poi ogni tanto li mostra con orgoglio come per certificare il grado di mostruosità di cui è capace.

La partenza
Decido che ne ho abbastanza e vorrei allontanarmi ma nel parapiglia ho perso la mia tshirt e allora giro per il parco con mio fratello finché ci imbattiamo in mio padre che mi consegna una maglietta bruna very chic. Quando la indosso mi accorgo che ne avevo già una sotto. Prima di andare all'uscita recupero il contenitore musicale e incrocio di nuovo il tipo con l'impermeabile che mi saluta. Quando mi da la mano vedo che è storpio, mi porte un rostro scuro e rattrappito. Ci salutiamo da vecchi amici. Mentre mi avvio all'uscita incappo in un'area giochi. I bambini fanno acrobazie tra tubolari di ferro sotto gli occhi dei genitori, parte una base e i piccoli improvvisano una jam elettronica. Mamme e papà discutono del rock di MInneapolis.

giovedì 30 gennaio 2014

Sordido cinefilo e autobus volante




Il traffico mattutino riprende vigore verso mezzogiorno. Io sono reduce da uno strano incontro con un critico cinematografico/regista che voleva essere intervistato nella sala di un cineclub simile a un night. Anzi quando questo personaggio che somigliava ad un giovane Carlo Giuffrè con occhiali a montatura nera, giacca con panciotto e cappotto in simil cammello, è stato abbordato a una ragazzona di dubbia identità, ho avuto la netta impressione di trovarmi in un locale notturno. A lato della sala c'era il bancone del bar e il solito barista in giacca bianco panna intento a strofinar bicchieri. Più che un quadro la scena sembrava un poster luminoso. Il cinecritico si era seccato - o forse era imbarazzo per la disinvoltura con cui la ragazza dalle spalle squadrate aveva tentato di accalappiarlo, magari se non ci fossi stato io... - e dopo essersi allontanato in fondo alla fila delle poltroncine aveva sdegnato ogni domanda facendo naufragare l'intervista. Per così poco... proprio lui che "aveva cominciato con approcci equivoci negli scantinati, fotoromanzi da pochi soldi, filmetti autoprodotti e infine era diventato una star di Axn" come recitava l'introduzione ufficiale del suo spazio televisivo.

Così sono uscito con l'intenzione di lasciare la città. Scivolavo veloce per la strada seguendo i binari dei tram ed ecco che ad un bivio mi sono trovato imbarcato su un autobus. Avevo guadagnato anche un posto nella fila dietro il conducente: una giovane donna in divisa, capelli biondo sporco raccolti sotto il berretto con visiera. Il bus in città sembra avere una corsia privilegiata, le auto si scansano non appena si avvicina, non c'è il rischio di restare imbottigliati. Ma dopo un incrocio impegnato da lavori in corso veniamo deviati su una carreggiata esterna a quella principale, che comunque scorre parallela alla via principale. A terra si vedono piastre metalliche, grate, cavi e binari, operai con elmetti e pettorine bianche che trafficano dentro le trincee dei sottoservizi. Sprizzano scintille di saldatori sotto i cavalletti che delimitano le aree di lavoro a rischio. Ma l'autobus va, e prende velocità. La cosa mi allarma un poco anche se la conducente e gli altri passeggeri sono perfettamente tranquilli, percepisco addirittura una atmosfera giocosa da gita scolastica: si chiacchiera della meta non del viaggio.

Io però non riesco a distogliere lo sguardo dal fondo stradale e mi stupisco che il bus non sobbalzi quando affronta le giunture delle lastre metalliche o i cavi stesi sulla carreggiata. Sospensioni miracolose o stiamo correndo agganciati a un binario preciso? Non ho l'occasione di chiarire perché l'autobus inizia a scartare verso destra con decisione crescente: andiamo fuori strada mi dico. L'autobus infatti si spinge progressivamente verso i margini della strada che - con un brivido - mi rendo conto costeggia una scogliera a strapiombo. Lo spostamento è inesorabile, vedo le linee del cantiere che si allontanano veloci e un rumore di rocce sgretolate mi avverte che le ruote sono della fiancate destra sono ormai oltre il precipizio. Ma miracolosamente siamo in equilibrio, forse è la velocità a tenerci in bilico. Mi alzo in piedi e scopro che mi sono ingannato: sono le ruote della fiancata sinistra a a urtare le rocce. Siamo quasi del tutto in aria. Cerco di sporgermi e vedo la scogliera, una lunga parete bianca di gesso lambita dal mare azzurro frantumato dal sole in migliaia di riflessi. Ma il momento della caduta non arriva mai: solo un sussulto quando ci stacchiamo completamente da terra. Immagino che al bus siano spuntate delle ali, però senza propulsione sospetto che il viaggio sarà breve. I passeggeri parlottano più intensamente godendosi lo spettacolo intorno, io cerco di figurarmi su quale lato precipiteremo e come assorbire meglio l'impatto: in piedi aggrappato ai sostegni o seduto come in aereo?

All'orizzonte scorgo un lembo di terra. Forse ce la facciamo ad atterrare. E' un prato di verde brillante. La conducente all'improvviso si alza dal posto di guida e inizia a parlottare al telefono. Ma come proprio nel momento cruciale? Forse c'è un pilota automatico. Ma no, vedo il solito volante e i pulsanti apri-porte. Attorno a me vedo studenti esageratamente disinvolti, forse per loro è un tragitto abituale, rischiare la vita una banale routine. La conducente intanto discute con un'amica dei fatti suoi: una storia complicata con un uomo che non sa se perdonare o meno. Faccio fatica a seguire finché il prato non inizia a scorrere sotto il fondo del bus: perlomeno non finiremo distrutti sugli scogli. Ora si pone il problema dell'atterraggio. Ma è un problema solo per me. L'autista tranquilla saluta l'amica e si rimette al posto di guida, pratica una dolce sterzata e l'autobus rallenta progressivamente fino a fermarsi su una piazzola asfaltata. Una pensilina affollata da altri passeggeri in attesa ai margini del prato fa capire che siamo giunti a destinazione. Le porte si aprono e i ragazzi zainati si precipitano fuori vociando allegri.

sabato 4 gennaio 2014

Le grazie e la catastrofe dei rettili giganti


Da quello che ricordo entro in questo grande magazzino che pare una di quelle grosse rivendite di abbigliamento extra centro commerciale. Corsie zeppe di giacche e giacconi, scaffali carichi di maglioni e pantaloni, berretti e sciarpe. Ogni cosa è disposta a modo e la clientela non manca. Anche io mi metto a curiosare pur non provando la necessità dell'acquisto. Ma ben presto noto che ogni maglione, ogni piumino ha una sua storia. Nessuna dietrologia sociale, bensì merchandising: i capi ricordano con stemmi e stile un episodio di una saga fantascientifica che è ambientata prima del primo episodio di Guerre Stellari. Un film che fatico a focalizzare, anche se sono perfettamente convinto della sua esistenza.

Giovani commesse fanno da cicerone illustrando pregi del prodotto e significati immaginifici e inoltre sopra ogni scaffale - a maggior chiarimento - ci sono delle piccole teche che contengono microdiorami con le scene clou: duelli dei protagonisti, paesaggi alieni, struggenti addii a bordo di astronavi e feste in sontuosi palazzi decorati di stucchi d'oro e dignitari in alta uniforme. Ammiro l'arte però la mia ignoranza della trama - resta avvolta in una nebbia che fa emergere sprazzi di melodie, navicelle brunite e gente in tunica bianca - pesa sulla decisione d'acquisto.

Mentre mi dirigo alle casse e quindi all'uscita, considero distrattamente dei portamonete di legno intarsiati con le mappe di mondi inesplorati. In quel frangente non mi sfugge la mossa di un giovinastro con la giacca da ussaro che, mano lesta, infila un berretto di feltro nero sotto la falda penzolante dalla spalla. Si accorge che l'ho visto e per qualche istante esita con un sorriso spiegazzato in faccia, indeciso se proseguire nel reato. Cerco con lo sguardo una commessa: una biondina dai capelli lisci e le labbra struccate sotto il naso lungo. Subito fa per accorrere come se le avessi domandato consiglio, ma con un cenno della testa la dirotto sul giovinastro. L'occhiata di fiamma della ragazza - avvampata anche nell'incarnato - lo fa sciogliere come cera e sghignazzando d'imbarazzo rimette il berretto al suo posto.

Siamo fuori dal negozio. Siamo: io, la bionda commessa e altre due colleghe. Una mora dai capelli corti è molto attraente. Indossano vestiti estivi, cotone bianco e fiori stampati. Siamo sotto il sole lungo una passeggiata che sa di mare. Ci muoviamo sull'erba di uno stretto giardinetto pubblico attraversato da percorsi per skaters. Forse siamo in cerca di una panchina. Nel frattempo le tre ragazze unite come da un invisibile anello mi si fanno incontro, si propongono in alternanza come dei proiettili nel tamburo di un revolver. O, peggio, come la selezione dei personaggi di un picchiaduro. Ognuna ondeggiando la testa sul collo con fare lezioso da sirena snocciola quesiti esistenziali - la felicità, l'amore, la serenità - e io come un giovanotto dalla saggezza fresca conio offro risposte intrise di poesia e umorismo. Credo che l'obiettivo sia centrato quando ridono.

All'improvviso una grossa nuvola di polvere si solleva all'orizzonte, a sud, in fondo alla spiaggia urbanizzata dalle torri albergo che fa tanto Rio de Janeiro. In prima battuta si pensa ad un repentino rovescio del tempo: un temporale di stagione. Ma le nuvole nere non vengono dal cielo, crescono dalla terra. Il vento trasporta sabbia e detriti. L'orribile verità si manifesta quando uno dei palazzi si sbriciola davanti a noi e dalle pareti inghiottite dal crollo sbucano le fauci di un grappolo di giganteschi serpenti.

Se non stessi assistendo alla scena penserei di trovarmi sul set di un film fantacatastrofico. Ma ancora non sono persuaso e così mi avvicino al chiosco di un bar, c'è una televisione sintonizzata su un canale di news 24 ore. Stanno trasmettendo il dramma in diretta. Un elicottero riprende i serpenti ciclopici mentre sfasciano gli edifici in riva al mare con una furia che rivela una sorprendente determinazione. Vogliono proprio buttarli giù, raderli al suolo. Subito mi viene in mente che la salvezza potrebbe essere nell'acqua: simili serpi non possono avere un buon rapporto con il mare. Sto per proporre la fuga alle ragazze quando lo schermo rivela un nuovo orrore: acquattato in acqua bassa un gigantesco alligatore albino fa strage di bagnanti. I mostri procedono in tandem, uno abbatte e l'altro divora. Non c'è scampo. Vogliono fare tabula rasa.

Tutto mi sembra così assurdo. Mi sento schiacciato dall'enormità del disastro, tutti i dolci pensieri di prima appassiti di botto. Un solo sollievo: l'evidente sproporzione della minaccia mi libera da responsabilità e in una certa misura anche dai rimpianti. Il sospetto di essere immerso in una fiction però non si spegne: siamo forse dentro la storia scritta da qualcun'altro, non certo in qualità di protagonisti, ma semplici comparse sacrificabili. Mentre la terra e squassata da colpi tremendi e la polvere graffia la faccia, mi acquatto con le ragazze in attesa della fine o... di un copo di scena.


Foto by Kyl