lunedì 16 dicembre 2013
Un film firmato Frank Zappa
I nuovi ricchi della città non somigliano ai vecchi grigi custodi del capitale e si inventano - con l'aiuto di martellanti pr - fantasiose occasioni per sfoggiare il loro invidiabile status. Ed ecco che sono tra gli ospiti di una signora di nazionalità incerta con un marcato accento cino-padano - camicia bianca con colletto ad ali di cigno e gilet nero seppia come i suoi capelli racconti in un doppio chignon - che apre le porte del suo salotto. In realtà è un piano intero di un grattacielo che si affaccia sul corso principale della city. Noto la folta moquette color sabbia, quadri dalle pesanti cornici dorate. Guardo dalle vetrate i palazzi ridipinti dalla luce del tramonto. La posizione è strategica: non siamo troppo in alto - si possono distinguere i modelli delle auto in strada - nè troppo basso - la foschia dello smog non intacca la veduta -.
Per inaugurare questo spazio consacrato agli incontri culturali e ai fatti suoi, la signora ha pensato bene di commissionare un film d'arte a due registi di grido. Presente soltanto uno. Applausi e cono di luce su... ma quello è Frank Zappa. O almeno una versione giovanile con baffoni neri e capelli sulle spalle. Vorrei capire meglio, ma l'afflusso degli ospiti impedisce liberi movimenti. La signora continua a intrupparci: avanti, avanti. Finchè pure lei deve ammettere che siamo pigiati indecorosamente stile treno pendolari. Ma la soluzione è a portata di clic su un tavolino dalle gambe arcuate addossato al muro. La parete opposta alla vetrata si spalanca e compare una grande camera da letto. Meglio dire "con letto" perchè questo è vasto quanto un ring. La signora con nonchalance incoraggia a entrare e farsi attorno alla sua smisurata alcova. C'è malcelata malizia mentre invita a stringersi e farsi avanti.
Finalmente sistemati possiamo voltarci verso la vetrata che si oscura per la proiezione del film. E' un film muto, anzi è un videoclip. Da quello che capisco è la storia di un mago-guaritore che gira mascherato e compie prodigi. Le scenografie sono caratterizzate dal bianco, dal rosso e dall'oro, il paesaggio si vela di luci fluorescenti verdi e rosate quando i suoi poteri operano. E più il suo dono si rivela efficace più il suo cammino accelera in bilico tra la parata trionfale e una impossibile fuga da se stesso. Mi resta impressa una sequenza con ambientazione veneziana: il nostro avvolto in un mantello carnevalesco balza in un canale e sotto i suoi piedi spuntano esagoni bianchi e rossi che per la meraviglia degli spettatori si animano rivelando il furore del mago.
Il film termina bruscamente. La signora spiega che non c'è stata la possibilità di concludere l'opera, ma meglio qualcosa che niente. E così via a fare festa. Ma in un altro piano del grattacielo, nel seminterrato, nei garage adibiti a dungeon party. Non so cosa abbiano avuto in testa gli arredatori ma quello che vedo somiglia a un rifugio antiaereo militare scavato nella roccia, piccole stanzette illuminate da fili di fibra ottica con il sottofondo musicale governato da impassibili dj. E proprio accanto a un filamento di luminarie intermittenti incrocio il giovane Zappa che sembra il martire di una crociata al neon. Gli accenno del film e spiega candidamente che ha litigato con l'altro collega e così non ha avuto tempo per dare una forma compiuta all'opera. Sono interessato al progetto? Certo che sì.
Passiamo al giorno dopo, l'appuntamento per discutere del film è all'interno di una mostra dedicata a Batman e al bat style. Il tutto in una soffitta con pipistrelli di gomma che penzolano all'altezza della testa. Zappa mi indica alcune tavole steampunk che sembrano uscite da albi della Bonelli. Mi parla di una svolta dark allo stile del film e io immagino che la committente non ne sarebbe felice. Non siamo gli unici visitatori e Zappa viene avvicinato da un paio di ragazze vestite da dame di Versailles. Io sfoglio un manga con le avventure di un improbabile bat kid cercando di origliare la conversazione ma con scarso successo. Le dame se ne vanno tra risatine e sventolamenti di fazzoletti e pizzi. Zappa le saluta e ammiccando si avvicina annunciandomi d'aver combinato. Ma io esito: siamo oltre il fossato della maggiore età. Zappa ride: quel traguardo le signorine l'hanno già doppiato. E poi si lancia giù per le scale di gran carriera.
Io lo seguo, sbuco in una piazzetta pedonale attraversata da trincee per skaters. Mi guardo intorno. Poca gente, qualcuno passeggia con bimbi e carrozzine, c'è chi legge il giornale. Zappa è sparito. O forse è quel tizio là in fondo. Lo raggiungo, lo fermo e questo mi guarda con un sorriso beffardo. In quel momento realizzo che Frank Zappa è morto da anni e che quel giovane che si spacciava per lui era una specie di mutaforma, un imitatore bravo a condizionare l'interlocutore, un maestro di persuasione. L'incantesimo è svanito, si volta e se ne va lasciandomi con un pugno di dubbi.
Finchè non mi scuote un altro passante. E' un ragazzo biondo dagli occhi azzurri: sono io l'altro autore del film. Io invece sono sospettoso, non mi sembra che il soggetto abbia tutte le rotelle al suo posto. Ha i capelli tagliati corti, indossa un bizzarro poncho decorato con motivi geometrici e brandisce una grossa radio seventies poco portatile. Ha l'aria di un uomo da marciapiede caduto in disgrazia. Sgrana occhi come per prepararsi alle pepate domande di una serrata intervista. Io cerco solo di sganciarmi con destrezza, tanto più che la radio vintage rivela uno schermo: noto l'immagine di un lottatore di sumo che fa esercizi. Un pensiero indefinito allora collega il lettone ring della signora ai litigi dei giovani cineasti. Non vado oltre e decido di svegliarmi.
photo Kyl
sabato 5 ottobre 2013
Cuzco come Santiago
E' cominciato con un'indagine su un qualche tipo di reato. Rapimenti forse. Anche se in realtà dovevo coprire una sbronza di Fernet Branca in un locale tipo Mc Donald. Mi ero risvegliato in macchina in mezzo alla campagna mantovana e quando avevo raggiunto la prima casa nota - quella dei nonni paterni - avevo trovato una statua di ebano a grandezza naturale con lineamenti e ornamenti da antico italico che si spacciava per mio conoscente sollecitandomi a prepararmi per una cerimonia - un matrimonio? - giacché mancava "solo un'ora".
Alla fine non ci sono andato e ho iniziato a curiosare nei pressi del mio inatteso parcheggio. Come e perché ero finito là? Perché non ricordavo nulla? Cosa era accaduto in quel black out? Il sentiero conduce a una baracca accanto un albero. La ricordo bene quella costruzione quadrata dalle assi nere dove mio nonno custodiva attrezzi d'ogni genere. Mentre mi avvicino la baracca diventa uno chalet, poi qualcosa di più complesso, più alto e semi coperto da fronde di alberi.
Mentre mi aggiro attorno alla costruzione vedo arrivare due ragazze in pantaloncini corti con zainetti sulle spalle dai quali sporgono ciuffi di verdure e cime di baguette. Hanno l'aria di turiste, anzi lo sono. Le invito a "fare attenzione" e loro mi invitano a entrare in quello che si trasforma in un ostello sugli alberi. Dietro la facciata di legno c'è un piccolo cortile col pavimento d'assi annerite dal catrame. Si sale con una scala oppure usando un montacarichi azionato da contrappesi. Una stretta passerella con sostegni a prova di vertigine porta alla reception. Scopro così che esiste un incredibile turismo delle case sugli alberi.
E tra una vertigine e l'altra mi ritrovo in montagna, il clima è andino: sole che pela e vento secco che gela. La luce però è autunnale e si spande sui giganteschi declivi montani che sembrano nascondere piramidi a gradoni cosparse d'erba ingiallita. Distogliendo lo sguardo traballante dalle vallette verdi dove sono sprofondati i fiumi d'acqua bianca, glaciale, mi arrischio su un percorso senza sentieri. Accanto a me sento il parlottare di altri turisti in giacche a vento e larghi cappelli. La parete però si fa troppo ripida e ad ogni passo incespico sopra rocce instabili, sassi dagli spigoli taglienti, non ancora smussati dal tempo, rotolano giù. Mi aggrappo agli sterpi e guadagno il piazzale lastricato da blocchi di pietra: autobus, capannelli, chioschi di cibo caliente.
Subito mi aggrego a una comitiva che si inoltra in una galleria commerciale dalla facciata in finto stile Inca che fa tanto Gardaland con le sue liane d'edera plasticata. Dentro corridoi di finto marmo e le solite boutique da duty free aeroportuale. C'è una porta a bussola che mi attira, è lì che il flusso turistico deve compiere una tappa obbligata. La guida spiega che è la ricostruzione di una serie di vecchi hotel di Santiago: qui suonava l'orchestra e d'estate si tenevano feste per gli ospiti.
Il senso non mi è chiaro, mi guardo attorno: sulle panchine c'è un gruppo di vecchi emo. Grassi, sfatti dentro le magliette nere, brandelli di capelli rasati e bruciati dalle troppe tinte. Mi guardano cercando di ricordare come si sorride, persi dietro qualche strofa di canzone. Piluccano patatine comprate da un bar gestito da baffetto dalla pelle scura che attende le ordinazioni dall'ondata di turisti senza troppe aspettative.
Da qualche altoparlante nascosto viene diffusa una vecchia melodia da orchestra per party sull'erba. Il vento agita mulinelli di foglie secche
giovedì 26 settembre 2013
Attorno alla notte bianca
In paese i bambini ricchi fanno festa. E' come una notte bianca: animazione tutto il giorno. In centro c'è una curiosa sfida padri e figli, le coppie vestono i panni di improbabili supereroi. Incroci di personaggi Marvel e kit da Mission impossible. Anche i vecchi edifici dalle pareti sporche sono stati "truccatti": pannelli e drappi disegnati per dare un tocco d'architettura steampunk. Gruppetti di spettatori e parenti - moglie e sorelline da Mulino bianco - incitano i protagonisti delle sfide eliminatorie. Mi avvicino con prudenza a due ragazzini che stanno facendo da contrappeso agli atletici padri, o comunque ce la mettono tutta per sembrare tali.
Di solito sono personaggi sulla quarantina, capello leggermente brizzolato e on ordine, leggera abbronzatura e dentatura sbiancata. Da come parlano li immagino rappresentanti di commercio, dirigenti aziendali, insomma gente che comanda. I due superpapà si arrampicano per una parete semplice, ma per la metà del tempo penzolano dalle corde sghignazzando e motteggiando. Quando finalmente fanno presa e scivolano dentro le finestre aperte mi sintonizzo sui discorsi dei ragazzini. In particolare c'è ne sta uno con la testa grossa - da filosofo si sarebbe detto un tempo - che racconta al suo coetaneo di un appuntamento, una tradizione di famiglia. Capisco che parla di un anniversario storico che ha qualche problema ad essere rivelato: apologia di fascismo. Ma il bimbetto ne parla fiero e sfrontato con le labbra grosse che gli scoprono invereconde gengive. Sì, mentre parla sorride perché sa che c'è un aria di sfida nelle sue dichiarazioni. Non è farina del suo sacco, atteggiamenti rubati ai grandi.
Mi scosto, urtato dalle smargiassate, facendo un giro che mi porta sulla strada della scuola, mezzo ingombrata da bancarelle. Il flusso dei visitatori mi impedisce di fermarmi e osservare con pazienza, ma su un anonimo banchetto coperte da un telo di cellohpane scorgo scatole di soldatini in scala HO con vetrinetta, minuscole tabacchiere che illustrano le gesta di microrobot nagaiani anni '70 e soprattutto tanti cloni plasticati di marche note fantasiosamente rielaborate. Purtroppo la folla spintoneggia, carica di passeggini e drappelli di minorenni a braccetto di nonni malfermi, non mi dà tregua, devo spostarmi, neanche il tempo di focalizzare quelle meraviglie. L'istinto è quello di rifugiarmi in un negozio, ma non riesco a focalizzarlo e mi ritrovo dall'altra parte della circonvallazione.
Mi intrattengo con una signora - un'antica hippie spettinata - e il suo giovane compagno che hanno da poco dismesso un'attività editoriale. Lo hanno fatto a malincuore ma si mostrano sereni e pensano già ai prossimi obiettivi: una lunga, meritata, vacanza al sole. Siamo in un curioso giardino dove le alte siepi sono murate alla base e l'effetto è quello di un labirinto per bambini. I miei ospiti mi rivelano che una casa vicina è stata visitata dai ladri e mi invitano a darne notizia. Mi affaccio da una siepe per assistere a una scena curiosa: un giovane in maniche corte esce dalla cancellata di una vecchia villa dove staziona un capannello di curiosi. Brandisce un manico di scopa come fosse un fucile e ha occhi spiritati. Ma l'inclinazione della bocca tradisce una tara mentale. E' come se avesse scoperto solo adesso che qualcuno ha fatto un torto alla sua famiglia e, senza sapere come, volesse farsi giustizia. Inseguito e raggiunto prima di affrontare una circonvallazione stranamente priva di traffico, viene riportato in casa blandito da esortazioni e promesse di serenità.
Torno dai miei amici, hanno un appuntamento altrove e li accompagno salendo sulla piattaforma di una fantomatica linea del metrò che ferma direttamente nel giardino dalle siepi murate. E' un viaggio su una minicarrozza che precipita in un tunnel con un'inclinazione di 45°. Emergiamo nel cortile di una vecchia cascina appena fuori dalla cerchia delle mura. Siamo accomodati sullo scheletro di una 126 e mi spiegano che hanno voluto vendere la macchina: non servono auto dove stanno andando.
Foto by Kyl
martedì 17 settembre 2013
Parking nightmare
Fine turno, si esce dall'ufficio. Ma prima mi cade l'occhio su una cartina stradale spiegata su un tavolo e scopro che il paese di Cene è una deliziosa località nel verde circondata da laghetti. Ecco perchè me la decantavano tutti! E noto che poco più sotto c'è Lambrate: è il paese che prende nome dalla stazione? Se è così è molto vicina e comoda per raggiungere Milano. In sovrappiù, quasi a metà del percorso spicca un abitato che si chiama Rai: forse un villaggio televisivo? Decido di fare un'esplorazione.
Come al solito mi ritrovo a piedi in una zona desolata di capannoni, prati spelacchiati con ciuffi d'erbaccia gialla circondati da nodi di superstrade. Sento che ho sbagliato obiettivo devo rimettermi in viaggio. Me lo conferma un collega di passaggio spiegando che la via per Lambrate è un percorso ad alto traffico non certo questa periferia sgangherata. Prima di ritrovare l'auto mi avvicino a una serie di palazzi anni '70 confinanti con vecchi capannoni industriali. E' una zona semideserta dove l'unico segno di vita sono i parcheggi.
All'improvviso la luce cambia. Il cielo sopra di me è notturno: vedo le costellazioni basse poco sopra l'orizzonte frastagliato dalle sommità dei condomini. Un tizio che cammina con difficoltà diretto verso uno scooter cambia direzione e mi prende di mira biascicando qualche parola incomprensibile. Non è la solita scena dello zombi, ha più l'aria di un disabile mentale che vuole lanciarsi in qualche gioco manesco. Infatti mi si butta addosso e con qualche difficoltà lo scanso. Mi insegue, ma è lento.
Altri due figuri arrivano da una via laterale. Hanno l'aria di essere intontiti e posseduti: sospetto che ci sia di mezzo lo strano fenomeno celeste. Ormai mi hanno circondato e non trovo altra soluzione che rovesciargli addosso una serie di improperi. La cosa ha effetto, si scuotono, si svegliano. Subito gli faccio presente che dobbiamo reagire, organizzarci. Una grossa macchina nera con finestrini oscurati sfreccia a tutta velocità sulla via e quasi ci investe. Quando la nuvola di polvere s'abbassa una schiera di figure si fa avanti: maglietta celeste e pantaloni stretti con la piega, capello impomatato e sguardo perso. Un'intera squadra di bowling ci viene addosso. Insieme agli altri li spintoniamo via gridandogli in faccia: è l'antidoto per riscuoterli.
Intanto il sole sorge. Ma è il sole? Una macchia di luce che si allarga al centro del cielo. Il buio stellare viene schiacciato, inghiottito dall'orizzonte. L'incubo svanisce, posso tornare al parcheggio a cercare l'auto.
mercoledì 4 settembre 2013
Lo strano addio a Max Cipollino
In genere evito nomi di persone che capitano dentro il sogno, ma stavolta sono personaggi pubblici e la storia non può farne a meno.
E' morto Massimo Boldi, il terribile Max Cipollino che aveva conquistato le platee televisive e cinematografiche con la sua verve demenziale. E' stato un incidente: un assurda disgrazia sul set di uno spot. Lo vedo mentre dietro le telecamere viene spinto in una buca da alcune comparse che si affrettano a sotterrarlo spingendo una massa di terriccio con la pala di una ruspa gialla. Lui lancia sguardi smarriti e perplessi nella tradizione di Laurel & Hardy. Quando però il ciak è "buono" ed è il momento di tirarlo fuori si scopre che i sostegni non hanno retto alla massa di terra: Boldi è stato sepolto vivo. Pochi minuti senza ossigeno ed è morto soffocato. Il cordoglio formale dei media serpeggia per il Paese.
Io, forse perché ho assistito alla fatale disgrazia, mi reco da uno dei suoi amici più potenti. Silvio B. Sì, proprio l'ex premier che in quanto proprietario di emittenti televisive e casa di produzione cinematografica era stato uno dei fautori del successo di Boldi. In particolare l'aveva aiutato quando era scoppiata una bega milionaria per una violazione contrattuale. B. l'aveva comprensivamente sostenuto trattenendo i suoi famelici legali.
Ora però è un giorno di lutto, anzi una serata improntata al cordoglio. Ebbene la villa di B. è aperta e quasi mi stupisco della facilità con cui sfilo davanti al servizio d'ordine: men in black con dolcevita nero e occhiali scuri intenti ad ascoltare la partita via auricolare. Non ci sono rischi reali per la sicurezza, tutti siamo qui per ricordare Massimo. Noto che l'afflusso è caratterizzato da persone d'una certa età, identificabili con pensionati, insomma quasi coetanei di B. Non è certo tempo per feste con modelle e veline.
Dentro un salone imbandito come la mensa di un albergo tutti trovano posto . Mi aspettavo discorsi e commemorazioni, invece si mangia. Ma scopro che è così tutte le sere: i graditi ospiti sono degli habitué della villa e B. sembra aver cambiato stile di vita. Lo vedo infatti seduto in posizione centrale, neanche capotavola, tra una coppia di signori abbronzati dal sole di Cesenatico. Indossa il maglione blu da riposo ed è stranamente taciturno, parco di sorrisi. Per lo più ascolta con sguardo di finto interesse i discorsi dei commensali. Si percepisce un velo di tristezza per l'amico perduto che gli ospiti faticano a comprendere.
Cominciano a servire in tavola e i commenti si sprecano in una sinfonia assordante di piatti urtati dalle posate e bicchieri che si toccano in rapidi brindisi. B. appare sempre più rabbuiato e stanco di rispondere, ma si va avanti tra complimenti sperticati e tentativi di articolare discorsi che siano graditi al padrone di casa.
Ecco che all'improvviso irrompe un trio di tarchiati musicanti: capelli rasati sul cranio massiccio, vestiti blu fluo, camicie nere a righe senza cravatta. Due colossi armati di chitarra e fisarmonica accompagnano un ometto dinamico che si propone all'attenzione della platea con brevi frasi pronunciate con marcato accento russo: buonaserra signore e signori e un caldo abraccio al cavaliere B. che ci ospita in cuesta magniffica seratta.
Il prologo strimpellante sta per sfociare in una canzone del repertorio partenopeo accompagnata dal battimani dei commensali ormai dimentichi del lutto e pronti alla facezia, ma B. non ce la fa. Scuote la testa, dice "No, no, no", si scusa e si alza. La festa è finita. Precipitosamente gli uomini in nero fanno uscire la gente tra la prima e la seconda portata. Alcuni non hanno neppure visto l'antipasto e accennano una protesta ma vengono cortesemente spinti fino al cancello della villa. Lungo il vialetto cosparso di ghiaia qualcuno maledice i guitti russi e dà la colpa dell'infelice trovata addirittura a Putin. Una signora bene informata invece sostiene che era proprio Boldi a cantare durante le cene e cercare di sostituirsi al comico mentre il suo ricordo era ancora vivo è stato un gesto brutale.
La festa è rovinata, tutti se ne vanno a casa. A sorpresa scopro d'essere venuto in bici. Una graziella dalle gomme bianche e lisce che impone frenate calcolate. La signora bene informata, una professoressa in pensione aggregata alla corte degli adulatori di B. per motivi "alimentari", mi indica la via lungo uno sterrato campestre costellato da giganteschi blocchi di roccia bianca.
ps Ovviamente lunga vita a Massimo Boldi
E' morto Massimo Boldi, il terribile Max Cipollino che aveva conquistato le platee televisive e cinematografiche con la sua verve demenziale. E' stato un incidente: un assurda disgrazia sul set di uno spot. Lo vedo mentre dietro le telecamere viene spinto in una buca da alcune comparse che si affrettano a sotterrarlo spingendo una massa di terriccio con la pala di una ruspa gialla. Lui lancia sguardi smarriti e perplessi nella tradizione di Laurel & Hardy. Quando però il ciak è "buono" ed è il momento di tirarlo fuori si scopre che i sostegni non hanno retto alla massa di terra: Boldi è stato sepolto vivo. Pochi minuti senza ossigeno ed è morto soffocato. Il cordoglio formale dei media serpeggia per il Paese.
Io, forse perché ho assistito alla fatale disgrazia, mi reco da uno dei suoi amici più potenti. Silvio B. Sì, proprio l'ex premier che in quanto proprietario di emittenti televisive e casa di produzione cinematografica era stato uno dei fautori del successo di Boldi. In particolare l'aveva aiutato quando era scoppiata una bega milionaria per una violazione contrattuale. B. l'aveva comprensivamente sostenuto trattenendo i suoi famelici legali.
Ora però è un giorno di lutto, anzi una serata improntata al cordoglio. Ebbene la villa di B. è aperta e quasi mi stupisco della facilità con cui sfilo davanti al servizio d'ordine: men in black con dolcevita nero e occhiali scuri intenti ad ascoltare la partita via auricolare. Non ci sono rischi reali per la sicurezza, tutti siamo qui per ricordare Massimo. Noto che l'afflusso è caratterizzato da persone d'una certa età, identificabili con pensionati, insomma quasi coetanei di B. Non è certo tempo per feste con modelle e veline.
Dentro un salone imbandito come la mensa di un albergo tutti trovano posto . Mi aspettavo discorsi e commemorazioni, invece si mangia. Ma scopro che è così tutte le sere: i graditi ospiti sono degli habitué della villa e B. sembra aver cambiato stile di vita. Lo vedo infatti seduto in posizione centrale, neanche capotavola, tra una coppia di signori abbronzati dal sole di Cesenatico. Indossa il maglione blu da riposo ed è stranamente taciturno, parco di sorrisi. Per lo più ascolta con sguardo di finto interesse i discorsi dei commensali. Si percepisce un velo di tristezza per l'amico perduto che gli ospiti faticano a comprendere.
Cominciano a servire in tavola e i commenti si sprecano in una sinfonia assordante di piatti urtati dalle posate e bicchieri che si toccano in rapidi brindisi. B. appare sempre più rabbuiato e stanco di rispondere, ma si va avanti tra complimenti sperticati e tentativi di articolare discorsi che siano graditi al padrone di casa.
Ecco che all'improvviso irrompe un trio di tarchiati musicanti: capelli rasati sul cranio massiccio, vestiti blu fluo, camicie nere a righe senza cravatta. Due colossi armati di chitarra e fisarmonica accompagnano un ometto dinamico che si propone all'attenzione della platea con brevi frasi pronunciate con marcato accento russo: buonaserra signore e signori e un caldo abraccio al cavaliere B. che ci ospita in cuesta magniffica seratta.
Il prologo strimpellante sta per sfociare in una canzone del repertorio partenopeo accompagnata dal battimani dei commensali ormai dimentichi del lutto e pronti alla facezia, ma B. non ce la fa. Scuote la testa, dice "No, no, no", si scusa e si alza. La festa è finita. Precipitosamente gli uomini in nero fanno uscire la gente tra la prima e la seconda portata. Alcuni non hanno neppure visto l'antipasto e accennano una protesta ma vengono cortesemente spinti fino al cancello della villa. Lungo il vialetto cosparso di ghiaia qualcuno maledice i guitti russi e dà la colpa dell'infelice trovata addirittura a Putin. Una signora bene informata invece sostiene che era proprio Boldi a cantare durante le cene e cercare di sostituirsi al comico mentre il suo ricordo era ancora vivo è stato un gesto brutale.
La festa è rovinata, tutti se ne vanno a casa. A sorpresa scopro d'essere venuto in bici. Una graziella dalle gomme bianche e lisce che impone frenate calcolate. La signora bene informata, una professoressa in pensione aggregata alla corte degli adulatori di B. per motivi "alimentari", mi indica la via lungo uno sterrato campestre costellato da giganteschi blocchi di roccia bianca.
ps Ovviamente lunga vita a Massimo Boldi
martedì 13 agosto 2013
Praga, città del sogno
Praga è una città che si propone di offrire al visitatore l'esperienza di un sogno, un sogno terreno disponibile in ogni declinazione e inclinazione. Una gigantesca multisala pronta "proiettarti" nel tuo film preferito: romantico o mistero? Azione o emozioni forti?
E' una città che resta tenacemente sospesa tra passato e presente, un presente che rispetta la sua storia ma non vi si adagia. Gotico, barocco, secessionismo, liberty e art nouveau sono le gemme del suo patrimonio venuto a patti con i discount, i kebab e i discopub.
E' una città che non conosce separazioni, l'alto e il basso si incrociano: nelle piazze invase dai turismo armato di tablet e reflex, i barboni raccattano resti nei bidoni. Le sedi dei ministeri a un passo dal flusso dei curiosi, le impalcature dei palazzi in ritrutturazione sopra le botteghe artigianali e ristoranti "francesi". All'angolo della vecchia sinagoga si apre il corso delle boutique d'alta moda dove fioccano avvisi di serate glamour e party folli.
E' la capitale di una nazione che appare consapevole dei propri limiti, che conosce le severe lezioni della storia - troppe cicatrici per dimenticare - ed è pronta a cogliere ogni opportunità di sviluppo senza timore di rimboccarsi le maniche. La sua vera magia consiste nel coltivare questo equilibrio tenendo lontane le illusioni. Forse sta qui il vero sogno.
mercoledì 31 luglio 2013
Barcelona Universal Models si racconta Sogni in scala 1/72 (versione integrale)
C’è un anonimo catalano che sommessamente sta invadendo il mondo con i suoi eserciti. Tranquilli non c’è pericolo: stiamo parlando di armate in miniatura in plastica e resina realizzate dalla Barcellona universal models (Bum), ideata da German Domingo, un cinquantenne, ovviamente di Barcellona, che ha consacrato la sua vita al giocattolo in scala ridotta.
«La mia prima passione sono state le automobili ero un bravo modellista e ho partecipato a concorsi in Spagna e all’estero, anche in Italia» racconta Domingo. Però una volta entrato nel mondo del giocattolo in miniatura non è più riuscito a uscirne: prima come distributore e ora come produttore. La sua ditta ha compiuto 20 anni proprio nel 2013 ed è uno dei marchi che resiste e continua a stupire appassionati wargamers e collezionisti per l’originalità dei suoi prodotti. La Bum - e le sue etichette sorelle GerMan e Pobeda - infatti spazia dal Far West alle guerre Napoleoniche, dalla guerra civile russa alla Seconda guerra mondiale.
Tra le particolarità della Bum due balzano all’occhio: i set storici pronti all’uso (soldati, mezzi e componenti sceniche) e l’ispirazione a personaggi e racconti storici (L’Ultimo dei mohicani, il D Day, l’operazione Market garden, i tre moschettieri). Così dalle scatole escono le figure del cardinale Richelieu e dei moschettieri, Pietro Micca, i protagonisti delle battaglie come li abbiamo visti al cinema oppure la posa del miliziano colpito a morte fotografato da Robert Capa.
«Ogni giorno mi guardo un film di guerra – spiega – leggo libri e pubblicazioni di storia per cercare nuove combinazioni che possano trovare il favore dei clienti. Non è facile azzeccarla: le guerre tra indiani e Francesi o la polizia canadese sono andate bene, quelle tra inglesi e scozzesi molto meno».
Il mondo dei soldatini di plastica è una rete che valica frontiere e unisce continenti. Tra le collaborazioni internazionali della Bum c’è anche un’avventurosa impresa avviata in Ucraina. «Mi avevano fatto vedere dei prototipi molto interessanti e ho fatto degli ordini, ma il materiale arrivava con grande lentezza addirittura mi impedivano di andare nei laboratori perché era "segreto militare". Oggi lavoro con due o tre scultori spagnoli che mi garantiscono risultati di qualità e un confronto più rapido».
Scorrendo la vasta produzione Bum balza all’occhio quella sulla guerra civile spagnola: miliziani, franchisti, esercito repubblicano, legione Condor. Una sfilata che evoca, anche se per gioco, un dramma.
«L’accoglienza è stata buona nel mondo del modellismo spagnolo, anche perché questi soggetti non esistevano – racconta Domingo – la cosa curiosa è che ad esempio la richiesta più consistente di truppe franchiste mi è arrivata dai Paesi baschi, mentre i repubblicani sono andati a ruba a Madrid. Ma la ragione è forse più ludica che politica: ad esempio anche dagli Usa ho avuto una grande richiesta di giapponesi della Seconda guerra mondiale. Quando ho domandato il motivo a uno dei miei distributori mi ha detto: semplice ne abbiamo molti dei nostri, ma pochi avversari». Insomma la voglia di giocare è più forte delle barriere ideologiche.
lunedì 29 luglio 2013
Catalunya sogno di libertà
In mezzo a tanti proclami scritti e improvvisati, dictat gettati come specchietti e barattati con perline di vetro, oppure slogan urlati e sbandierati come la nuova verità, ecco il cammino di un popolo che non ha mai taciuto la propria identità. In secoli di lotte i catalani si sono sempre distinti per la determinata volontà di affermare uno spazio autonomo, in una parola: libertà!
Qui sotto se ne parla.
Qui sotto se ne parla.
giovedì 25 luglio 2013
Forza di volontà vs forza di gravità
L'avevo vista di sfuggita alzando lo sguardo distrattamente e dopo averla focalizzato fingevo attentamente indifferenza. Era un'orrida massa rocciosa, un incubo partorito da Dalì alto centinaia di metri che sbucava dalla terra e minacciava il cielo d'azzurro quieto come una baldanzosa bestemmia. Forse, mi dicevo abbassando la testa, se non le dò peso non dovrò frequentare quella mostruosità. Invece, come se si fosse aperto un terzo occhio, iniziavo a esaminarne il profilo curvo che alla sommità annunciava una sfida ancor più alta al mio senso di vertigine: un ponte tibetano fatto di sottilissimi cavi neri. Una costruzione talmente precaria che pareva non avere sponda sulla quale poggiarsi. Restava lì, protesa in una foschia lattiginosa dovuta alla distanza. Non c'era nulla all'altro capo. O così sembrava.
Il percorso cominciava da una comunissima rampa autostradale che si assottigliava man mano l'auto - un datato fuoristrada - si inerpicava per i fianchi della montagna. Al volante c'era un militare, forse un carabiniere che sapeva il fatto suo, o almeno così dava a vedere. Nel giro di pochi istanti la pendenza iniziò a farsi sentire: 30°, poi 40°. Io, un fascio di muscoli e nervi tesi in allarme, ero a fianco del conducente che rispondeva alle futili domande di altri due passeggeri. Era chiaro che dovevamo andare a verificare lassù, ma continuavo a chiedermi come fosse possibile. Ero schiacciato contro il sedile e la grande paura si insinuava nei miei pensieri: e se adesso si spegne il motore? E se si buca una ruota? Immagina l'effetto di una pioggia di frammenti di roccia..
Io controllavo il nostro pilota: mani sul volante, tranquillo, non l'avevo visto mai cambiare la marcia, si procedeva a velocità costante macinando un fondo stradale semisterrato e il motore non sembrava sotto sforzo. La base della montagna era la parte più ripida, considerai, mentre il braccio della cima inarcato a sinistra offrirà una pendenza meno impegnativa. Certo, andava messo in conto il problema delle buche: un sobbalzo troppo esagerato e la jeep si sarebbe ribaltata con effetti devastanti. Ma no, dovevo pensare che ce l'avremmo fatta. Il carabiniere sembrava tanto sicuro.
Interno: è un piccolo rifugio di montagna, un laboratorio artigianale con spaccio di formaggi d'alpeggio, un avamposto d'osservazione. Di preciso non lo so. Anche se prevale la sensazione che sotto ci sia dell'altro. Non posso togliermi dalla testa l'immagine del ponte sospeso. Forse il progetto segreto sta nel percorrerlo con la macchina: una pazzia. I locali sono stretti e lunghi, ingombrati da lunghi tavoli con panche. Io sono seduto e osservo il viavai di quelli che paiono innocui escursionisti e scalatori di lungo corso. Sono seduto perché ho difficoltà a camminare: la pendenza si è impadronita delle mie gambe. Appena mi alzo il peso mi trascina contro la parete più vicina. Se non ci fossero ostacoli immagino che volerei giù fino a valle.
Il carabiniere e due ragazzine in camicia a scacchi si accorgono del mio immobilismo e mi incoraggiano: sù ce la puoi fare, fai come noi. In effetti a parte l'andatura un poco spedita nella direttrice nord sud non sembrano avere grossi problemi di movimento. Ma c'è un velo di pazzia in tutta l'operazione: perché costruire qui? Una parete di roccia buona per capre e stambecchi. E ora mi chiedono di opporre la forza di volontà alla forza di gravità. Folle. A che pro? Forse solo per il gusto della sfida. E' bastato questo pensiero per rimettermi, pur faticosamente, in piedi.
sabato 22 giugno 2013
L'Italia che non c'è
C'è uno spettro che si aggira per l’Europa. Non è più il comunismo, è l’Italia. Te ne accorgi quando vai all’estero e alla dichiarazione di nazionalità corrisponde uno sguardo compatito: oh, italiano... Con una sospensione che ti comunica il senso di partecipazione alla malattia di un parente o all’incendio della casa. In effetti la casa Italia sta bruciando e la colonna di fumo non si può più spacciare per un rogo di sterpaglie.
Sulle pagine dei giornali esteri le "cose di casa nostra" trovano spazio solo nella sezione amenità e stranezze, insomma il circo dei freaks. Le mozzarelle adulterate e la "bomba" dei rifiuti abbandonati in strada, i processi di Berlusconi e le follie del debito pubblico. Il tricolore fa capolino solo nelle pagine sportive dove si documentano le alterne fortune degli azzurri e i piazzamenti delle Ferrari.
Lo spettro dell’Italia nell’ottica straniera si è ristretto ad un pulviscolo di marchi e sigle: Leonardo e Versace, Raffaello e Lamborghini, Dante, Dolce e Gabbana. Ma dietro le griffe quell’italiano indolente e genialoide pare scomparso. Nelle vecchie barzellette a sfondo europeo ogni nazione aveva il suo stereotipo: il tedesco ottuso, il francese snob, l’americano spaccone contrapposti a un italiano malandrino e brillante. Immagini del passato sbiadite nel calderone della globalizzazione. Lo si deduce dai sorrisi di maniera dei leader del G8 quando stringono la mano al nostro giovane premier che pare un candidato agli esami di riparazione. Ci parli dell’Italia: chi era costei?
From L'ECO di BERGAMO
Sulle pagine dei giornali esteri le "cose di casa nostra" trovano spazio solo nella sezione amenità e stranezze, insomma il circo dei freaks. Le mozzarelle adulterate e la "bomba" dei rifiuti abbandonati in strada, i processi di Berlusconi e le follie del debito pubblico. Il tricolore fa capolino solo nelle pagine sportive dove si documentano le alterne fortune degli azzurri e i piazzamenti delle Ferrari.
Lo spettro dell’Italia nell’ottica straniera si è ristretto ad un pulviscolo di marchi e sigle: Leonardo e Versace, Raffaello e Lamborghini, Dante, Dolce e Gabbana. Ma dietro le griffe quell’italiano indolente e genialoide pare scomparso. Nelle vecchie barzellette a sfondo europeo ogni nazione aveva il suo stereotipo: il tedesco ottuso, il francese snob, l’americano spaccone contrapposti a un italiano malandrino e brillante. Immagini del passato sbiadite nel calderone della globalizzazione. Lo si deduce dai sorrisi di maniera dei leader del G8 quando stringono la mano al nostro giovane premier che pare un candidato agli esami di riparazione. Ci parli dell’Italia: chi era costei?
From L'ECO di BERGAMO
sabato 25 maggio 2013
La marcia di Lilliput
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhFMHs8hGk0Nn3-9dfQr1UetnEiNGZAsw5Fk6J8NBlZlm5emf8CktfW0ROIKPpavQ-bTyosyNaPRnVHLmC2fj4CnK8eTbpkJ7_If-0tsA_7eDxOyst0W_zq0PrYJEkuKa-jlGiYcY8qkiQ/s320/patasog.jpg)
Il sole filtra basso e dolce da una vaporosa colonna di nubi quasi appoggiando sulla superficie quieta del lago. La luce soffiata dal vento risplende sull'erba della riva, percorrendo le trame rugose della corteccia degli alberi frondosi. E' da lì che vedo arrivare la processione con un incedere baldanzoso che sa di musica. Attraversano rapidamente il verde sulla sponda superando le depressioni del terreno con passo febbrile. Li metto a fuoco lentamente: sembrano quaccheri o comunque pellegrini del Nuovo mondo: uomini vestiti di nero e blu con i cappelli a cilindro dalle larghe tese e collettoni bianchi, donne con il capo cinto in modeste cuffiette e larghe gonne scure. Il tessuto bianco e fresco delle loro camicie in movimento manda bagliori come uno scroscio di mercurio.
C'è un capo in testa alla marcia, indubbiamente una figura dal carisma religioso, lo si deduce dalla rapidità con la quale il resto del gruppo asseconda i suoi cambi di rotta, dovuti più che altro al terreno ondulato. La guida infatti cerca di discostarsi il meno possibile da una sorta di parabola immaginaria che corre parallela alla riva del lago. Noto finalmente che il reverendo stringe qualcosa tra le mani tenendolo ben distante dal petto, anzi leggermente sopra la testa in modo che tutti possano vederlo. No, non è un crocifisso, bensì una palla ovale, un pallone da rugby di cuoio scuro.
La sorpresa raddoppia quando inizio a considerare le proporzioni: la comunità in marcia sovrasta di poco i fili d'erba e scompare dietro blocchi di roccia e piccoli arbusti. Sono lillipuziani! Sono tutti alti una decina di centimetri scarsi. Una vista che stranamente mi affascina e forse per non allarmarli decido di restare immobile, appoggiato al tronco dove mi godevo il paesaggio.
Quando l'omino in testa al corteo è a tiro però non resisto e gli sparo un rispettoso ma sorridente "Wellcome!". E quello tutto impettito, senza scomporsi e senza distogliere lo sguardo dalla sua invisibile meta mi concede uno sbrigativo "Bless you the Lord" ricco di antichi accenti anglosassoni. E replico meravigliato con un ossequioso "thank you" mentre la colonna mi sfila rapida davanti senza degnarmi di uno sguardo, imboccando un sentiero tra l'erba alta - per loro - che non avevo notato prima. Sono diretti oltre un piccolo promontorio oltre il quale, probabilmente innescati da sentinelle nascoste, iniziano a diffondersi le note solenni di corni vichinghi.
La tentazione di sbirciare è forte, ma sento che non appartengo al loro mondo e potrei offenderli disturbando un'importante cerimonia. Inoltre mi chiamano "Dobbiamo partire - reclamano voci lungo la riva - sì andiamo la nostra gita è terminata". Ma nonostante le sollecitazioni mi attardo per raccogliere le mie cose e...
Foto by Kyl
mercoledì 24 aprile 2013
Napoli-nightmare
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Il presidente Napolitano è giunto all'ora del fatidico pronunciamento. Chi sarà il presidente del consiglio incaricato? Di solito lo vediamo dietro la scrivania del Quirinale, assiso tra affreschi e ripiani di noce intarsiato, ma stavolta è in piedi, misticamente illuminato da raggio di luce che piove da un'alta finestra. Il momento è grave, nelle vene ottuagenarie scorre il sangue dei padri della Patria, si tratta di un'investitura solenne e densa di responsabilità storiche che vibrano di senso istituzionale. "Nel conferirle l'arduo incarico - pronuncia con la consueta prosa parlamentare - consapevole della difficile congiuntura politica ed economica, le porgo un sincero augurio perché sappia costituire un governo in grado di dare al Paese le urgenti risposte che necessita". Il presidente sorride e tende la mano per congratularsi con il candidato premier. L'inquadratura si allarga e lo vediamo di fronte ad un grande specchio dalla cornice dorata: il presidente ha incaricato il presidente!
In prima battuta vi fu una certa confusione, i segretari di partito presi in contropiede balbettarono in tivù dichiarazioni contrastanti, ma non apertamente negative. Casini raggiante si slacciò la cravatta e a Maroni si appannarono gli occhiali. Vendola vide nel bi-presidente un sottinteso riferimento alle unioni gay e Berlusconi fu colto da una paresi ridens. Beppe Grillo invece fu chiaro: annunciò il sacco di Roma convocando lanzichenecchi via twitter, ma ci fu confusione sull'autogrill scelto per il raduno e non se ne fece nulla. Verso sera un paio di costituzionalisti ammisero che la decisione di Napolitano non era campata in aria, anzi aveva concrete fondamenta nella lex imperialis di Ottaviano e siccome la Borsa dava segnali positivi e lo spread continuava a calare si decise di attendere il giorno dopo. E il doppio presidente Napolitano non si fece attendere. Di prima mattina convocò le telecamere per annunciare il nuovo governo. "Ministro degli Interni, Giorgio Napolitano; Ministro dell'Economia Napolitano Giorgio" e via così. Un elenco monotono forse, ma capace di raccoglie vasti consensi dentro e fuori il Parlamento. Una delegazione della Corea del Nord giunse addirittura in visita di studio.
I problemi di governabilità e le annose beghe di partito erano finalmente accantonati per una guida unitaria e salda, a tutti i livelli. Grazie infatti a sofisticate tecniche di copisteria, ogni Comune ebbe il suo Napolitano da affiggere in municipio e al quale rivolgersi per le pratiche più spinose. Non trascorsero neanche due settimane e con il beneplacito della Bce, auspicato dalla Germania, si passò dall'euro al Napolitaner: moneta meno pretenziosa e più rispondente ai valori reali del Paese.
Sette anni dopo quel fatidico giorno non possiamo che plaudire alla felice intuizione presidenziale, capace di oltrepassare una crisi istituzionale che rischiava di frantumare la Repubblica. E così mentre attendiamo il responso dall'urna del Cern sulla riclonazione del presidente Napolitano ascoltiamo il suo più recente inno: Fardelli d'Italia.
giovedì 18 aprile 2013
D. D. dopo il default
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Interrompiamo le visioni per una urgente comunicazione dal deserto del reale
Figliolo, sganciati un attimo da quegli ologrammi animati e dai un'occhiata fuori dall'oblò: una volta questa era l'Italia! Guarda laggiù, tra le spiagge delle coltivazioni di branzini e gli appennini livellati dalla transcontinentale africana si nota ancora la sagoma di un vecchio stivale, non vedi? Lo chiamavano Belpaese perchè in passato è stato la culla di fiorenti civiltà, il centro di un grande impero e patria di molti artisti. Sì, lo so che sai già tutte queste cose, sono nel data base di storia, ma forse non conosci tutto quello che è accaduto nel P.D., Prima del Default. Che poi è la ragione che ci ha portati qui. Era un periodo di grande confusione, l'economia del Paese boccheggiava, la politica più che risolvere creava problemi e lo scontento sociale ribolliva. Intanto il debito pubblico cresceva e lo Stato firmava "pagherò" a tassi di interesse sempre più alti sotto gli sguardi preoccupati dell'Unione europea. Le ennesime elezioni non fecero chiarezza: in Parlamento finirono conservatori, riformisti e rivoluzionari.
Tre forti espressioni della volontà popolare però incompatibili, era come cercare di mescolare acqua e olio: non si trovava una formula stabile di governo. Serviva una personalità super partes in grado di raccogliere un ampio consenso, dentro e fuori il palazzo. Esauriti gli usurati candidati istituzionali, il presidente uscente giocò l'ultima carta disperata chiamando in causa un personaggio extra politico sulla breccia della popolarità da decenni, sinonimo di giustizia sociale e simpatia. Fu così che venne convocato il Gabibbo e le Camere finalmente non ebbero nulla da obiettare, consegnandogli un mandato di piena fiducia. Del resto l'ombra delle inchieste di capitan Ventosa incombeva sugli eventuali oppositori. Il primo passo non fu, come auspicato dal ministro dei Beni culturali Claudio Bisio, l'invasione della Svizzera per riguadagnare i capitali fuggiti, ma una proposta di resa incondizionata al Vaticano. Proposta che Papa Francesco declinò gentilmente: bueno, sono per una Chiesa povera, ma non fessa.
Il Trio Medusa, delegato alla Giustizia, avviò una lotta senza quartiere all'evasione abolendo la vetusta Guardia di finanza per istituire il Corpo delle Veline: gli evasori si abbandonavano in confidenze fiscalmente compromettenti davanti a un drink in compagnia di belle ragazze. Il quadro riformatore si completò con l'elezione del nuovo presidente: Paolo Villaggio, in arte Ugo Fantozzi, che pur incarnando lo spirito abbacchiato del Paese da buon ragioniere poteva far valere un solido titolo di tecnico. E il pezzo di carta sortì il suo effetto quando, presentatosi in Germania nelle vesti del professor Kranz, paventò una guerra dei bretzel (tipici salatini alsaziani) ottenendo da una Merkel intimorita la calmierazione dello spread. L'Italia però doveva continuare il cammino per l'azzeramento del deficit e la soluzione fu radicale: la repubblica venne trasformata in società per azioni e i cittadini in qualità di azionisti si dovevano accollare quote di debito da smaltire. I venditori più capaci si manifestarono al Sud e al Centro: ignari magnati russi acquistarono fontana di Trevi, Colosseo e Pompei per fantastilioni di rubli per poi accorgersi che si trattava di riproduzioni in miniatura. Intanto Benigni, impegnato in un tour mondiale per la promozione della cultura tricolore, vendeva copie della Divina Commedia autografate da un tale Domenico Alighieri. Anche l'economia riprendeva a girare con l'introduzione di nuovi modelli Fiat di auto a pedali: risparmiose e tonificanti.
Ma un imprevisto rovinò tutto: il premier Gabibbo morso dal suo tapiro fu preso dalla febbre e dichiarò che l'Italia sarebbe uscita dall'euro per tornare al sesterzio. Era di nuovo il caos. Fortunatamente un commercialista in pensione in visita all'osservatorio astronomico di Brembate Sopra capì che la sequenza armonica della pulsar nella nebulosa del Granchio non era un fenomeno naturale ma una precisa opa - un'offerta di pubblico acquisto in linea con i canoni della Consob - e comunicò la sua scoperta alla ministra delle Comunicazioni Maria De Filippi. Dopo una breve trattativa si arrivò all'accordo per il noleggio del Paese: cinque anni in cambio del ripianamento dei debiti. Scoprirono troppo tardi che si trattava di cinque anni galattici. Adesso preparati per l'atterraggio, a Roma non si trova mai un posto per l'auto, figuriamoci per un disco volante.
"Cloud dragon" foto by Kyl
giovedì 7 marzo 2013
Santana & Woody Allen: the lost concert
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi7sY2xGpEf47G95EMzB6lL9-zxG22xoBa68wH42PsjYm5-GTVT-LVGfhq4_VPqt0gdwRrOYkEyhYUhF-HnEQPXsU13wQhGbwU6eoiYgUOKCZPUiJW0HI6dBJUVm-C6rEfQAa8mEPmJ_Fs/s320/sottoilpalco.jpg)
C'è agitazione nella mia vecchia casa, una villetta a schiera nella periferia di un paese di provincia. Il semplice ritrovo della mia cerchia di amici e conoscenti si anima per una esibizione eccezionale: Santana e Woody Allen. Rock, jazz e cinema in un colpo solo. Lui in giacca di pelle senza maniche e camicia dai colori sgargianti, imbraccia già la chitarra e quieto discorre con dei ragazzotti del suo entourage. L'altro indossa una maglietta a mezze maniche e tiene a distanza gli ammiratori lanciando sguardi interrogativi dietro le lenti dalla montatura spessa, non ha ancora estratto il clarinetto dala custodia.
Non so perchè siano arrivati o chi li abbia portati, ma un brivido di orgoglio mi percorre quando i vicini reclamano un posto per assistere all'esibizione. Ed ecco che per accontentarli i tecnici cominciano a lavorare per allestire un impianto nel giardino sul retro. Il ragionamento è valido: c'è più spazio rispetto al salotto e la gente può ascoltare affacciandosi dalle finestre dei palazzi. Ma è già sera e all'improvviso per facilitare il lavoro di questi roadies spuntati da chissà dove, appare il cono di luce di un enorme riflettore montato direttamente sul tetto di una delle villette confinanti.
Sono agitato, un incontro tra amici si sta trasformando in una piccola Woodstock sotto i miei occhi. E poi sento che dovrei intervistare i protagonisti per realizzare una sorta di scoop, ma devo anche fare gli onori di casa e fingere di sovrintendere un'organizzazione che in realtà si muove senza il mio consenso, in piena autonomia. Tanto che all'improvviso la sede del concerto viene spostata nel giardino anteriore, sicuramente più spazioso. Facendo questo passa il tempo ed è già mattina inoltrata: l'aria è luminosa e calda, il prato risplende dei raggi del sole. Allen è molto tranquillo, aspetta come se fosse alla fermata del bus. Santana non ha mollato la chitarra, quasi fosse lì per sparare un assolo alla prima provocazione. Sbuffa, forse ha sete mi dico e corro in casa a prendere dell'acqua e un bicchiere di vetro. Quest'ultima penso sia una finezza che non passerà inosservata.
Dal frigo prendo una bottiglia e la porgo dalla finestra a uno dei giovani che stanno lavorando sul prato: in inglese gli chiedo se hanno bisogno d'acqua. Mi accorgo subito però che il tipo è italiano e lui in risposta mi invita a uscire di casa per dargli una mano. Apro la porta finestra e vengo incrociato da un altro giovanotto con gli occhiali da nerd. I due mi chiedono cosa penso di un fattaccio dell'anno scorso: tafferugli e diritti della donna. Ricordo qualcosa vagamente però capisco che questi due non c'entrano con il concerto, hanno l'aria di appiccicosi attivisti. Ringrazio e batto in ritirata tra le mura riconquistate.
Foto Kyl: Barcellona 2010 Waiting for the artists
sabato 16 febbraio 2013
Un viaggio in Turchia: la nuova Efeso
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Dopo un'incresciosa sosta in una libreria al piano interrato di un complesso commerciale durante la quale ho cercato di evitare il contatto - persino lo sguardo - di noti soggetti negativi, mi preparo a liberare il campo. Afferro un libro su Napoleone (inserito tra le pagine c'è un pieghevole che pubblicizza un incontro sul condottiero corso) e mi precipito alla cassa con manovra zigzag. Davanti al commesso giovane estraggo un portafogli sigillato con chiusure a strappo, peccato che l'interno sia fradicio: estraggo due biglietti da cento (cento cosa?!?), uno dei quali addirittura bucato, e due da dieci. Li stendo sul bancone speranzoso e il commesso comprensivo accetta.
Ho fretta di allontanarmi. Mi lancio sulla rampa di scale con una tale foga che raggiungo in pochi balzi i piani superiori dove gli spazi commerciali lasciano il posto a residenze esclusive. O così suggeriscono le grandi vetrate che offrono scorci di una metropoli antica ma proiettata verso il moderno. Arrivato all'ultimo piano mi rendo conto d'aver sbagliato strada, ho superato l'uscita a livello della strada. Allora scendo ed esco dal lato opposto, l'ingresso dei residenti, verso il cortile passando per una sala fitness frequentata da mature signore che ostentano cotonature anni '50 e anelli d'oro. Esco nel giardino che somiglia tanto a un campo di calcio ancora da completare e qui vengo apostrofato da un cagnetto. Il bastardino abbaia, ma per me è come se parlasse invitandomi a lasciare la proprietà privata.
A passo di carica riguadagno la strada, una stretta strada lastricata di pietra e porfido, tra caseggiati alti e storti che fanno tanto centro storico toscaneggiante. Un tratto è ingombrato da negozi - bar e ristoranti principalmente - nel pieno di manovre da inventario e rifornimenti. Pallets di bibite e bottiglie d'acqua sbarrano il passo e allora mi produco in un prodigioso salto - da fermo - scavalcandole a piè pari con corredo di commenti ammirati da parte di uno degli esercenti. La passeggiata prosegue con le osservazioni della fauna locale: non mi sfugge l'ingresso di uno scantinato equivoco presidiato da due giovani cinesi. La ragazza in minigonna ostenta calze traforate e confabula con un coetaneo dai capelli arruffati da spalettate di gel che annuisce affondando le mani in tasca. Il caschetto di capelli nero scintillante della giovane gareggia con il nero della giacca del ragazzo, la parodia cheap di uno smoking con le maniche arrotolate sugli avambracci. La tentazione di dare uno sguardo dentro mi solletica, ma immagino la solita bisca e passo oltre.
Pochi metri e vengo intercettato da un terzetto di amici. Uno si sbraccia: "Ehi, che si deve fare per chiamarti?". Dicono d'avermi scorto in libreria ed è quasi sottinteso che debba unirmi a loro per una bevuta. Per fortuna la strada mi offre l'opportunità per sganciarmi. La complessa architettura del centro storico vede la strada ostruita da un grosso edificio color sabbia: si può proseguire ma soltanto strisciandoci sotto, perchè la costruzione è come appesa ai due lati della strada. Mentre gli altri si infilano sotto, io scelgo l'alternativa di uno stretto pertugio e li semino mescolandomi tra un'umanità che sa di casbah, turismo dubaiano e antichi mestieri.
Ci sono ovunque piazze biancastre con rovine romane, blocchi di marmo erosi dal tempo, resti sparsi di facciate e monumenti. Su un pendio lastricato che scambio per un belvedere un gruppo di persone sosta davanti a un televisore lcd che trasmette un blob di vecchi film d'azione turchi anni '70: pugni, pupe e canzonette. In inglese mi rivolgo a uno sghignazzante signore in maglietta marinara: è un locale dai capelli corti e brizzolati sulla testa tonda pennellata d'una abbronzatura stanziale. Gli chiedo dove si possono vedere film del genere e mi risponde in un anglo-italiano che devo andare al cinema comedy central. Mi riprometto di andarci, ma il tizio attacca bottone e fatico a seguire il suo discorso. Si avvicina un suo compare che sembra il sosia di Ciccio, con mula al seguito. Mentre cinanciano tra loro l'animale si posizione proprio col deretano puntato sul sottoscritto e intuendo il finale cerco di divincolarmi tra la folla. Comincio a sospettare che sia una candid camera o che sia un duo di svitati buontemponi dallo scherzo pesante. Infatti fanno ostruzione finchè uno schizzo giallastro e liquido non mi raggiunge, schivo il "grosso" ma delle macchie oleose precipitano sulla mia maglietta. La folla ora strepita in preda a raffiche di risate convulse.
Batto in ritirata. Per fortuna non sento addosso l'odore dello slime giallognolo, però vorrei cambiarmi d'urgenza. Dribblo carretti di venditori di souvenir, gruppetti familiari con donne velate finchè arrivo a una piazzetta immacolata e quieta dominata da uno stand a forma di giostra. Ma non è quella la cosa che mi colpisce subito quanto una ragazza che parla con una coppia di anziani turisti: fisico snello, forme da hostess. Ma il suo viso... un trucco marcato, artificiale, ai lati della bocca ha disegnati due solchi. Santo cielo è una bambola! O almeno, le vuole somigliare. Indossa una salopette bianca che le lascia scoperte le ginocchia e anche quelle sono truccate come le giunture a incastro di una bambolina di plastica. Dolls è l'insegna dello stand e non riesco a immaginare cosa possano vendere: cosmetici? Vestiti? Animazione di feste? Sono una decina di ragazze in vari costumi, dallo sportivo ai merletti, dirette da una paciosa signora dalle fattezze orfeiane che le ammaestra come una garrula burattinaia. Devo comunque attraversare la piazza e lo faccio a passo accelerato, anche se una delle impressionanti doll cerca di abbordarmi. Declino gentilmente, vado di fretta e sono impresentabile.
Altra piazza con sorpresa. E' cinta in parte da un colonnato che imita lontani fasti architettonici, bianche scalinate neoclassiche e centro una muraglia rossa, un parete di mattoni rosso lava con strane angolazioni. Vedo dei giovani che si arrampicano perchè lo spettacolo sta dentro. Si sente del movimento accompagnato da una musica disco che fa tanto luna park. La chiamano la rosa rossa: vista dall'alto è un ottagono, una struttura in pvc scaldato al centro da una fonte di calore naturale. Il materiale nel mezzo si scioglie e si ricompone creando forme fantastiche, pilotate da artisti e sponsor (a un certo punto dai flutti rossi emerge anche una mastodontica bottiglie di Fernet Branca). Sui bordi della rosa mi sono arrampicato anch'io seguendo l'esempio di un terzetto italofrancese. Sto cercando inutilmente di accendere la macchina fotografica con una mano sola, mentre con l'altra mi reggo in bilico sullo spigolo. La italofrancesina dalle lunghe chiome bionde siede senza problemi e rimprovera i suoi amici che si sporgono sul magma plastico. Ma i due se ne infischiano e come surfisti richiamati dalle onde si buttano tra i flutti cremisi, apparentemente indenni e ululanti di adrenalinico entusiasmo. Una voce da un invisibile altoparlante precisa che la rosa rossa è azionata da energia naturale e che il Paese è autosufficiente dal punto di vista energetico. Buon per loro, me ne vado. "Certo, penso, sarete anche a posto con l'energia, ma avete un territorio delicato, esposto a terremoti spesso devastanti". Tutte le rovine assumono un'altra veste, meno fiera e preziosa, mi sembrano dei superstiti. Mentre mi infilo strusciando fra tre esili colonne d'alabastro e mi chiedo quanto dureranno.
Bancarelle di frutta fresca tentatrice catturano i miei sguardi. So che non conviene per via dell'acqua, per via dei batteri, però allettano non poco quelle fette di melone brillanti, pesche scintillanti, spicchi verdi e bianchi che promettono succo dolce e asprigni umori. Cogliendo telepaticamente i miei desideri, il tipico ambulante sdentato e bruno come una corteccia d'albero mi indica la mercanzia curiosamente incellophanata sopra una carriola. Ma per lui ho soltanto un cortese "no" che fa calare il sipario sull'intera escursione.
giovedì 14 febbraio 2013
Una storia a brandelli
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L'ambiente è chiuso, grandi vetrate e linee di luce artificiale che contrastano le ombre serali. Sono in bilico su una corda di taparella stesa tra le due sponde di una piscina deserta. Più mi sposto e più affondo. Indosso un pigiama estivo di tela leggera che mi fa somigliare a un nottambulo Papillon. Sono quasi a metà del guado con i piedi a mollo e quasi convinto che presto dovrò sguazzare. Ma ecco che un tiepido abbraccio mi avvolge. E' una promessa di felicità che mi convince e mi tranquillizza. E' una divinità acquatica emersa da liquide profondità, come la custode lacustre della spada Excalibur. E' un momento di gioia e quasi mi dispiace scoprire che in realtà il fondale della piscina è soltanto una spanna più sotto: sono in una vasca per bimbi.
Il condominio dove sono ospite ha un ingresso come tanti ma dentro niente ascensore. Ai piani si arriva con le scale mobili, che si incrociano a x dietro una maglia di vetro e acciaio che rappresenta la facciata dell'edificio. Così mentre salgo noto una rampa discendente che stranamente non si muove: c'è il corpo di un uomo in giacca e cravatta slacciata rannicchiato sui gradini. Dorme quietamente con la testa appoggiata a un impermeabile arrotolato. Lo riconosco, è Alan Alda. Un pensiero mi illumina: Pierce e Mc intyre di Mash. Nell'ultimo scampolo di visione scorgo un'altro addormentato dalla testa rosso ricciuta: è lui, l'inseparabile compagno di sala operatoria.
In casa: un appartamento stretto e lungo, arredato in toni moderni e pratici, uno stile Ikea, ma un poco più vintage seventies. Sulle mensole statuette di IZemborg e Ultraman in pose guerresche, un piccolo visore trasmette in sequenza muta scontri di giganti in costume tra i palazzi di compensato in scala perfetta che si impolverano ad ogni capitombolo. Su un tappeto color crema incorniciato di marrone c'è un tavolino basso nero dove già sono disposti alcuni soldati in scala 1/35: sono degli Atlantic tedeschi, ovviamente in pose mai viste. Sembrano più delle statuine da piazzare su una eventuale scacchiera. E come posseduto dal demone del gioco inizio a schierarli sul tavolo, sul tappeto, in corridoio. A un certo punto sento un vociare che arriva dalla porta finestra. L'impulso è di fare ordine prima di un'invasione poco rispettosa del contesto ludico, ma la curiosità prevale. Apro la porta finestra e mi ritrovo al pianterreno di una grande avenue. Al centro della scena una squadriglia di ragazzine asiatiche imbronciate che prova i passi di un balletto metropolitano. Una punk side story che ruba a Bernstein e Beat it di Michael Jackson.
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