venerdì 28 dicembre 2012

La roggia e la cicatrice




Indagine in corso. Finalmente faccio il mio mestiere e con finta disinvoltura mi spingo tra i caseggiati di un quartiere di periferia ben noto alle cronache. All'apparenza è una zona residenziale luminosa dove i palazzi naviformi contendono la luce agli spicchi di verde delimitati da camminamenti di cemento. Eppure c'è un mistero da illuminare per la curiosità dei miei lettori. Lo sento nel cuore il peso di questa missione, non per fidelizzare – termine che sa di guinzaglio – ma per non tradire le aspettative di chi mi segue sulle pagine del giornale.

Ho divagato fin troppo in amenità pasionarie e sento che occorre una sterzata nel reale. Ecco perché nel teporoso pomeriggio marcio per deserti cortili comunicanti in un canyon di palazzoni storti che paiono spuntare da terra come zanne squadrate di giganti. Edifici pieni di finestre rettangolari poste a eguale distanza come francobolli da collezione. Dagli ultimi piani pendono rigogliose liane d'edera che si attorcigliano ai davanzali. L'effetto capelli al vento dà quasi delle espressioni umane alle facciate.

Dopo aver studiato le sagome irregolari di alcune costruzioni noto la presenza di cavi e teleferiche. Un sistema di trasporto ad alto rischio che però supplisce la mancanza di ascensore. Il terreno dei cortili è accidentato: si aprono tra il verde e il cemento dei sentieri delle fangose trincee da lavori in corso.
All'improvviso, come ispirato, mi arrampico per la facciata di un palazzo che si inclina con pendenza di 45°: quando raggiungo il culmine della performance alpina mi domando se sia questa la strada giusta, dopo tutto il guaio può anche stare ai due capi della teleferica. E così uno sguardo vertiginoso dal 5° piano mi fa individuare una roggia placida dove l'acqua ha l'aspetto di colla liquida, trasparente.

Ridiscendo la parete a ragno e cammino lungo le brumose rive di terriccio fino a una pozza dove è semi sommerso un container bianco. L'imprevista visione mi dà un altra scossa e cerco di trovare un altro punto di guado o vedere se ci sono scritte che possano fornire una nuova pista. Aiutandomi con una trave di legno da cantiere arrivo sul tetto del container, ma appena lo sfioro la sostanza con una scarpa ecco che prende fuoco: svento comunque il pericolo di diventare una torcia umana. Battendo freneticamente il piede a terra smorzo le fiammelle. La suola è intatta e posso affrontare il tragitto del ritorno.

E' un pasticcio. Cos'è quella roba e chi l'ha versata in mezzo alle case? Si è riempito un fossato che sta attorno a un caseggiato. Temo che possa riversarsi negli scantinati, o forse è già accaduto. Ma non voglio essere eccessivamente allarmista e cerco di avvicinare qualche residente. Scorgo in un androne due donne borse della spesa attorniate da bambini giocanti. “Scusate, sono...” Mi investono subito di parole, getti verbali che fatico a decifrare. La più anziana lamenta l'inazione dei miei colleghi. Una litania che pare non finire.

Con un gemito perentorio mi impongo nella conversazione a senso unico e chiedo ulteriori spiegazioni. La donna con la pelle a pergamena, insolitamente abbronzata – forse dal sole della costa Brava – replica col solito misto di disillusa rassegnazione condita da sprazzi d'ironia. Io non posso garantire soluzioni ma illustrare il problema ai lettori, incalzare chi deve darmi risposta. Il sorriso vacilla. S'intromette la donna più giovane che mi dà una versione dei fatti più colorita, un collage di spizzichi e sentito dire. Mi pare sia più impegnata a mostrarmi che non ha il piercing sulla lingua, ma una bianca cicatrice. Un incidente d'infanzia?


Caravaggio country road Foto Kyl

domenica 25 novembre 2012

Lo Zen e l'arte di afferrare le frecce al volo



All'inizio sembra India, poi gli elementi buddisti aumentano e potrebbe essere Thailandia o Birmania - acc.. Myanmar - oppure è tutta una gigantesca rappresentazione all'interno di un padiglione fieristico barcellonese. C'è tutto il calore della bella stagione ispanica, quella che beneficia della rinfrancante brezza marina, e il sole viene filtrato da nubi fini così non capisci se è s'avvicina la sera oppure è una giornata imbronciata.

Avevo pianificato una gita, un'escursione guardando una mappa che parte dalla Malesia e attraverso un arcipelago Sudamericano inesistente porta ai promontori dell'Alaska, con la differenza che la dorsale delle terre emerse non abbraccia il circolo artico ma si protende verso regioni più temperate. Il tutto, da programma, richiederebbe 15 al massimo venti giorni, ma chi c'è l'ha tutto quel tempo. Un'altra volta, mi dico. E poi adesso c'è lo spettacolo.

Solenni colpi di tamburo annunciano l'inizio della rappresentazione. Siamo in un anfiteatro costituito soltanto da quattro alti pilastri e delimitato da lunghi vessilli bianchi ricamati. Pezze di stoffa nera quadrate costituiscono i posti a sedere, o meglio per inginocchiarsi ad imitazione dei protagonisti sul palco: sono una decina di personaggi in costumi d'epoca, arcieri e musici. Somigliano ad antichi nobili giapponesi con neri copricapi e larghe vesti di seta a motivi floreali.

Il miagolio dei "violini" - i shamisen - viene interrotto da secchi colpi di legno che scandiscono le azioni degli arcieri disposti ai lati della scena. Lunghe frecce piroettano lente in cielo per poi conficcarsi in bersagli circolari di carta che sono disposti a terra, soltanto a pochi metri dai piedi dei suonatori. A dir la verità vedo poco, tra le lingue delle bandiere e le teste di chi mi precede, dovrei alzarmi in piedi ma mi accontento di intuire l'azione tenendo a bada la frenesia occidentale del vedere per sapere.

Il nuovo esercizio consiste nel lancio di una serie di frecce pesanti seguito da altre frecce corte e più rapide che le urtano cambiandone la traiettoria e riportandole a terra in punti prefissati. O almeno si spera. Io osservo gli archi lunghi tendersi senza apparente sforzo poi lo scatto che indica il lancio del proiettile: le prede arrivano al culmine della loro corsa ed ecco che sono raggiunte dai cacciatori, i legni si incrociano nei punti prefissati e iniziano la caduta piombando a picco nell'area attorno al palco basso.

Ma qualcosa non va. Ci sono frecce che precipitano nell'area destinata al pubblico. Sembra una mossa studiata visto che le prime si infilano a pochi centimetri dagli spettatori nelle prime file. Però quando ne vedo tre che si urtano a pochi metri dalla mia testa in automatico allungo il braccio: è come se il tempo rallentasse mentre la mia mano s'avvicina alla freccia nella sua traiettoria assassina. Infatti l'agguanto senza difficoltà. Attorno a me, forse consapevole del rischio corso, forse per smitizzare la precisione degli arcieri, c'è chi grida "Bravo!" disturbando non poco l'atmosfera incantata dello spettacolo. Ma forse sbaglio, forse anch'io sono parte dello spettacolo.

foto Arrow of light over my head by mr Kyl

martedì 20 novembre 2012

Amarcade story: Konami





La società Konami, che oggi è nota globalmente per la serie di Metal gear, è nata nel 1969 a Osaka. Un inizio comune a molti nel ramo del noleggio dei jukebox e delle riparazioni di distributori automatici è fiorito come i tradizionali ciliegi giapponesi fino a comporre uno straordinario bouquet di attività che spaziano dall’animazione alle carte da gioco, dai telefilm di eroi mascherati alle slot machine.
Una duttilità negli interessi che rispecchia la composizione societaria, infatti la Konami (parola che in giapponese significa “piccola onda”) è la sigla formata dalle iniziali dei cognomi dei quattro fondatori Kozuki, Nakama, Matsuda, Ishihara. Proprio come nei Fantastici quattro occorre un cervello che sappia pilotare il gruppo anche alla Konami c’è un Mr Fantastic: questo era Kozuki che nel 1973 decide di cavalcare l’onda delle arcades. Per cogliere il successo serviranno anni di duro lavoro, ma il 1981 è il tempo del raccolto con titoli come Frogger, Scramble, Time Pilot, Gyruss e Super Cobra.
Nello stesso periodo la società intuisce il futuro sviluppo dell’intrattenimento elettronico e si lancia nella produzione di software ludico per l’effervescente mercato degli home computer e delle console. Un doppio binario - quello casalingo e quello arcadico - che ha permesso alla Konami di superare gli scogli più ardui fino a sbarcare negli Stati Uniti. Ricordiamo che sotto le sue insegne sono stati prodotti videogiochi tratti da I Simpson, G. I. Joe, Batman, The Goonies e Silent Hill.
Una prosperità che alla fine degli anni ‘90 ha accusato una battuta d’arresto con la chiusura della sezione arcade statunitense. Da menzionare comunque il patto siglato nel 2003 con la storica casa cinematografica Toho per la creazione di serie tv di tokusatsu (supereroi mascherati, stile Power rangers per intendersi).
Konami resta oggi uno dei big nell’industria dei videogame e, a quanto pare, anche nella produzione cinematografica visto che sta lavorando per portare sul grande schermo i suoi successi Castelvania e Metal gear.

Foto I tuoi occhi sono fari brillanti by Mr Kyl

lunedì 19 novembre 2012

Haute couture & low profile





Dopo essere stato accoltellato poco lontano dalla Posta da un rapinatore spuntato nell'ombra, torno ad aggirarmi per la città in cerca di vendetta o di qualcuno con cui sfogarmi. E' così che mi imbatto nel mercato. La strada brulica di una folla agitata che scorre via come cubetti di ghiaccio sull'asfalto. Penso sia Milano e questa idea vaga richiama una necessità di fondo: dare un'occhiata alla mia libreria preferita. Quella che sta al pianterreno dei palazzi del corso, quello a fianco dello svincolo del cavalcavia, un cavalcavia tanto alto che in cima ci hanno piazzato un casello simile alla postazione di partenza del doppio slalom.
Ma io resto imbrigliato nel mercato che si estende per centinaia di metri e ho il sospetto che abbiano chiuso addirittura il corso principale al traffico per dare fiato alla manifestazione. Peccato che non riesca a vedere nulla della mercanzia esposta, la cortina umana di curiosi e aspiranti compratori è troppo fitta e spintonante. Tenendomi al centro della carreggiata riesco a guadagnare una certa agilità di manovra che però sembra terminare in un vicolo cieco: il tempo di esprimere il mio disappunto e sulla parete di rossi mattoni piomba un rotolo di tappeto che sprigiona scintille fino ad erompere in una serie di fuochi d'artificio.
Nessun allarme, è la festa di una boutique di moda etno chic. Le lavoranti asiatiche applaudono convinte proforma e poi fingono di mescolarsi democraticamente tra gli stilisti occidentali in una girandola di inchini ed equilibrismi con calici di Martini.
Qualcuno si accorge di me: vengo introdotto agli amabili vertici della Maison. Un profluvio di sorrisi a labbra arricciate, bagliori dentali imbarazzanti. "ma guardi che c'è anche un collega". Come se fossimo tutti una piccola tribù. Il tizio però l'ho già visto: è un filibustiere azzimato che s'intende di salotti e gossip. Mi serve la mia porzione di salamelecchi con doppio senso sul reale peso della mia professionalità. Sì, dà l'idea che al termine d'ogni frase piazzi una strizzatina d'occhio.
Gli stilisti quasi si sentono in dovere di rinfrancarmi, non vogliono che nessuno si senta voffeso. perdiana, hanno dato anche la giornata libera alle operaie. E allora mi interrogano con malcelato disinteresse, per scacciare le ombre della possibile cattiva pubblicità, per riempire tempo vuoto.

Mi allontano, o meglio mi divincolo, in cerca della libreria incolonnandomi dietro un gruppo di uomini con giubbotti sportivi - mi ricordano i venditori di cassette d'arance lungo le statali -che confabulano a voce alta dei loro affari. Ma più si sforzano di apparire disinvolti, più mi convinco che hanno qualcosa di losco, un'aura di malavita. Non vorrei pensassero che li sto seguendo, ma -guarda caso - devo esattamente fare il loro stesso percorso se voglio tagliare il corso affollato.
La massa informe si dirada, i palazzi si fano alti e vecchi, rattoppati da impalcature precarie e insegne di botteghe con caratteri stranieri. Penso vogliano infilarsi in un bar-barberia che spicca pieno di luce all'angolo di un caseggiato che pare fremere di vita propria. Invece, dopo un rapido saluto al gestore cino-marocchino che è uscito sul marciapiede a stringere mani con vistoso vigore, scartano la porta e risalgono per una stradina che si inerpica fino al corso principale.
Però la strada è sbarrata da una bisarca parcheggiata con perizia metropolitana a cavallo del marciapiede. Lo stupore sta nel carico: mezzi cingolati della seconda guerra mondale verniciati in colori pastello fluorescenti. Giallo, verde e rosa come delle allegre smarties. Sembrano usciti da un parco giochi a tema bellico, penso a voce alta e uno del gruppetto si rivolge a me: "Belli eh? Chissà quanto costano, costeranno un'occhio". Beccato, anche stavolta la libreria me la scordo.

Foto Honk Kong star by Mr Kyl

domenica 11 novembre 2012

Doppio spettacolo






Ritorno sui luoghi delle vacanze estive: le montagne della mia giovinezza. E trovo tutto così "sviluppato": più attività, più negozi che botteghe, più giovani modaioli e auto di grossa cilindrata che sfrecciano dirette chissà dove. Io vengo dalla piana dell'afa e dell'umido per un revival dei cine oratoriali, un ghiotto doppio spettacolo.
Sono nell'atrio che ha l'aspetto di sempre - nel senso che ci capito spesso in questa regione del sogno - ed è una sorta di corridoio sotterraneo ben illuminato. Appena dopo l'entrata si scendono tre gradini e a destra c'è la biglietteria, il classico bancone di legno arcuato con vetrata protettiva. Dall'altra parte - mai capito il motivo - c'è un buio ingresso, ma niente paura è una piccola sala giochi. Gli arcade si illuminano e gorgogliano a intermittenza richiamando clientela.

Nel primo film scampoli di isole tropicali in miniatura e pupazzi di dinosauri giganti che strillano incazzati. Un invito al sonno sulle pur scomode poltroncine di legno. Così mi ritrovo a spasso per i prati collinosi: ci sono ragazzine e papà che pascolano con cagnoni senza guinzaglio e a fiuto libero. C'è un'atmosfera di lassitudine da domenica mattina. Ma non per me, devo tornare alla macchina: dove diamine sarà? E poi che auto sarà?

Il secondo film è ancora più noioso: sperimentazione tra il cartone animato e il tokusatsu. Lo svolgersi dell'azione è lento, la regia si sofferma sui contorcimenti dei protagonisti in combattimento e il racconto perde mordente. Rammento dei marinai sottoposti a un esperimento crudele o incappati in una maledizione dei mari del Sud: i loro corpi fluttuano avvolti in panni da ciurma corsara mentre vengono bombardati da flash colorati. Il bello è che sembrano stare sott'acqua, una scena fantasmatica.

Foto Getter fight by Kyl

mercoledì 7 novembre 2012

Amarcade story: Namco




Ci credereste? In Giappone la corsa per il successo nelle praterie degli arcade inizia in sella a un cavallo a dondolo meccanico nei grandi magazzini a Yokohama. E’ la corsa della Namco (poi Namco Bandai Games) fondata da Masaya Nakamura per far trottare i pargoli mentre mamma e papà facevano le compere.

L’impero del videogioco poggia le sue basi su queste prime pile di monetine. Basi solide visto che il tuffo di Namco nell’intrattenimento elettronico giunge nel tardo 1974 con l’acquisizione della divisione giapponese di Atari. I primi titoli autoprodotti arrivano nel 1978, ma è nel 1980 che viene posata la pietra miliare degli arcade: Pac Man.

Namco diventa un colosso mondiale che flirta con il settore delle consolle casalinghe ma non abbandona i prodotti “on the road”, anzi sforna nuovi arcade superando la crisi della metà degli anni ‘80. In particolare firma arcade per multigiocatori, simulatori di guida (in accordo con Mazda e Mitsubishi) e rafforza la sua posizione nei luna park e sale giochi istituendone di nuovi, a Osaka e Tokyo.

Negli anni ‘90 Namco si proietta sui giochi 3d (che diventano la nuova frontiera dell’intrattenimento virtuale) e produce il picchiaduro Tekken che farà scuola. La crescita di Namco prosegue imperterrita in questi ultimi anni spostandosi nel cinema e nella redditizia dimensione dei telefoni cellulari.
Da rimarcare poi il matrimonio con Bandai, che oltre a una dote di videogame porta un ricco e rinomato catalogo di giocattoli. Basterebbe citare la parola Gundam per aprire la porta di un universo parallelo fatto di meraviglie del modellismo. Ma, come si dice, questa è un’altra storia.

foto: The turning point by mr Kyl

martedì 6 novembre 2012

Pac Man: lo spuntino di corsa



Un desiderio corre nel labirinto dalle pareti di neon.

Lo dirige una passione febbrile fuori dal suo mondo. Rapidi colpi di mano lo aiutano a sbrogliare la matassa delle piste invisibili.

Scansare la collisione, ripulire la strada, cogliere i bonus. Passare all'attacco, fintare l'affondo, tagliare le vie di fuga.

Gli avversari si fanno in quattro per stringerlo negli angoli e porre fine al cieco appetito del giallo masticatore.

Ma i guardiani senza sorriso con i loro occhi immortali non sanno vedere l'ironia dell'eterna sfida. Il mondo quadrilatero che abitano esiste in funzione della reciproca minaccia, un equilibrio alterno che chiede il tributo dell'ennesima moneta.


foto: The yellow obsession by mr Kyl

lunedì 5 novembre 2012

Per i sogni degli altri




Quattro giorni vissuti nei sogni (e negli incubi) degli altri.
Grazie LuccaComics 2012!

Foto: un Pinocchio volante di Massimiliano Frezzato

lunedì 29 ottobre 2012

Tripartito.3 - L'aula






L'ultima tappa al posto di lavoro: nell'aula con banchetti scolastici tipo elementari ferve il chiacchericcio delle donne. Avvisto una fiammeggiante pettinatura biondo platino: una ex collega (o ex compagna delle elementari?!?) che, passata alla concorrenza, pare silenziosamente tornata nei ranghi della mia azienda di comunicazione. Prima di venire invischiato in revival spiacevoli guadagno l'uscita e nel corridoio pieno di gente indaffarata, richiami a voce alta e un sottofondo ticchettato di macchine per scrivere che pare rubato di peso da un telefilm poliziottesco anni '80, incontro un mio superiore. Mi prende sottobraccio, anzi mi cinge amichevolmente il collo essendo molto più alto di me: sento che vuole darmi una spiegazione falsa, tanto per rabbonirmi.

Scivolo via, gli afferro il polso e gli torco il braccio dietro la schiena ma senza fargli troppo male. Lui capisce il gioco e mi ruota attorno, però inciampa nei suoi stessi piedoni e mi urta: vado a sbattere con la faccia contro il muro. In breve rimedio un occhio nero. Potrei fargli causa, penso, potrei rovinare tutti e vivere di rendita. L'idea mi solletica e quasi sfoggio il mio livido per il corridoio sempre più affollato.

In una sezione incappo in un capannello di persone che pare conoscermi benissimo e mi chiedono a gran voce di fare l'imitazione di Zorro con tanto di mascherina nera e cappello a tesa larga. Io parto improvvisando un monologo italospagnoleggiante e coinvolgendo come comparsa una signora un po' su' d'età che mi guarda estasiata. Applausi del pubblico e premi. Vinco qualcosa di stranissimo: due cuccioli gatto di Pardo. Sono gatti ma maculati a pelo corto. Li si porta al guizaglio, miagolanti.

Ed eccomi rientrare trionfalmente in aula, mentre l'ex collega ritornata decanta le lodi di un cagnetto con leziosi ciuffi di pelo. Sul suo viso si disegna una smorfia di disappunto per averle rubato la scena mentre irrompono gli oooohhhh di meraviglia della platea. "Cosa sono?" mi chiede quasi schifata. "Sono gatti pardo, un rarissimo incrocio di razze". E il mio sorriso molleggiato è il colpo del ko.


Foto from Murales in Tallinn by Dr Ouamandè

sabato 27 ottobre 2012

Tripartito.1 - Il tragitto





Non è la prima volta che guido nel sonno. Nel caso più recente ero al volante di un'utilitaria con a bordo amici e parenti stretti, ma in una versione più giovane rispetto al presente. Anche io mi sento ragazzo, forse anche fresco di patente. Stringo un volante che mi pare fin troppo ballerino rispetto alla serietà supposta del veicolo e cerco di centrare la carreggiata che, per quanto rettilinea è dispettosa: sembra incurvarsi leggermente nel momento del nostro passaggio.
A complicare la faccenda ci sono schiere di automobilisti che sfrecciano al limite della linea di mezzeria, anzi spesso la superano, impegnati in furiosi sorpassi che implicano il rischio di un frontale dagli effetti disastrosi. Sembra di stare sulle strade pazze degli inseguimenti acrobatici alla Harold Lloyd e i Keystone cops. Infatti la scena si svolge con un audio a bassissimo volume che mi fa nascere il sospetto di una colossale burla. Le difficoltà intanto aumentano: man mano che viaggio nel traffico frenetico di una superstrada dell'hinterland la mia visuale si restringe, i contorni di fanno sfuocati e ogni volta che mi imbatto in un incrocio salto semaforo e precedenze.
La velocità non la determina il mio piede sull'acceleratore, è indipendente e in progressione: comincio a sentirmi prigioniero di un raffinato tormentatore. Ormai ho gli occhi ridotti a fessure e quasi attendo lo scontro come una liberazione. Avvisto una colonna di trattori guidati da idioti che fanno lo slalom in mezzo alla strada. Dopo averne scansati un paio decido di buttarmi su un'aiuola spartitraffico badando di evitare la segnaletica verticale: l'auto ingolfata da erba e terra si arrende mentre vengo tempestato da rimproveri ed esclamazioni di sollievo del parentado.

Foto: Tallinn main road

venerdì 26 ottobre 2012

Tripartito.2 - la residenza


Poi si inserisce una sottotrama casalinga: vivo in un appartamento al piano terra che pare un piccolo Overlook hotel: interni con pareti bianche e moquette al pavimento, piccole stanze arredate come indipendenti zone notte.
A volte mi capita di arrivare in locali inesplorati: in uno di questi scopro un letto con una coperta di raso azzurro bordata di un singolare ricamo d'argento che nel lembo superiore, quello sopra il cuscino, si trasforma in un gancio-appendino decorato a forma di donna piumata. L'impressione complessiva è quella di un sarcofago egizio. Al piano superiore esiste una zona uffici che digrada in un quieto giardino urbano e da quello che capisco è la sede di un consultorio socio-sanitario: mi capita di cogliere brandelli di conversazioni di coppie in crisi e consultazioni con gli avvocati al seguito.
Da uno stretto cortile esterno che si affaccia su una ampia scalinata vedo scendere, accompagnata dal legale annuente, una valchiria dai capelli biondi ma militarmente corti che sfoggia un'audace schiena nuda. Il suo borbottare è appena comprensibile ma avverto che non risparmia strali all'indirizzo del suo ex. Mi ritiro, quasi avessi violato qualche confine della privacy, ma presto devo fronteggiare altre invasioni. Pare che qualcuno si sia introdotto nella mia magione: noto negli stretti corridoi un disordine che non mi appartiene: cocci di vasi e depliant piegati di traverso come misteriosi origami in 2D.
Una fitta di impotenza mi pervade: che misure posso adottare se non conosco nemmeno l'esatta topografia della casa? Mi rassegno e resto indeciso se accomodarmi a letto per vegliare in attesa degli intrusi oppure produrmi in un pattugliamento silenzioso.

foto: Macba Barcellona

lunedì 15 ottobre 2012

Il ricordo giocabile: Amarcade


I ricordi cambiano nel corso del tempo e ogni volta che richiamiamo un fatto del passato lo modifichiamo. Il risultato dipende dalla strada che percorriamo per recuperarlo - l'emozione. la ragione, l'istinto - perché è come afferrare un oggetto tirando delle cordicelle, anche se siamo portati a pensare al ricordo come uno schedario o uno scrigno forse l'immagine più corretta è quella di un aquilone. Il ricordo in sè esiste, ma cambia a seconda dell'esposizione al vento e della forza e della costanza impiegate nella sua rievocazione.

Ciò che è accaduto quindi non è immutato e immodificabile, dal punto di vista soggettivo come da quello della cosiddetta pubblica opinione. Il ministero della Verità ideato da Orwell in "1984", l'istituto deputato alla conversione di ogni evento alla luce della convenienza di regime, non è una novità, ma un processo che la nostra mente e la nostra società compiono ogni giorno.

Immaginiamo allora un mondo semplificato che è sempre uguale a sè stesso perchè è limitato e i suoi confini sono spaziali quanto temporali.

Immaginiamo un mondo che può essere evocato con estrema facilità, in molte forme - formati - ma mantiene la sua coerenza interna, le sue leggi, le sue finalità

Immaginiamolo come il prodotto di una creazione che contiene le forme basilari dell'essere e dell'avere, le funzioni immediate del potere e del volere.

Immaginiamolo come un ricordo interattivo, che si ripresenta uguale e vi sfida a giocare sovrapponendo le emozioni lontane ai brividi della riscoperta.

Un ricordo = amarcord

Un videogioco = arcade

Ecco la genesi di AMARCADE

Provate a:



foto: The last bit by mr Kyl

mercoledì 16 maggio 2012

Questa è la nostra canzone




Sono quello che sono: un piccolo borghese che si arrabatta e casualmente entra in contatto con una famiglia facoltosa. L'aspetto strano è che in principio mi presento come compagno di giochi del figlio, entro in casa per una casuale merenda e non mi sfugge il fascino acerbo della sorella maggiore: un'aggraziata ninfa francese, modello Costa azzurra anni '60. Improvvisamente sento tutto il peso della mia età: se lei ha poco più di vent'anni io ne ho il doppio. Quando ci troviamo nel bagno del loro attico - incastonato in cima a prestigiosi palazzi che assomigliano al centro di Milano - io sorrido allo specchio e le mie zanne gialle mostrano irriverenti lo scontrino del tempo passato. Lei scherza con una complicità che mi lusinga, ma dietro lo schermo compiaciuto non posso fare a meno di pensare che quest'avventura non ha senso e comunque serve altro prima di giocare a carte scoperte.

Abbiamo trascorso la giornata tutti insieme, spensierati e giocosi, fingendo di dimenticare che la sera ci attendeva un appuntamento ben preciso: un ricevimento di gala. Anch'io mi vedo vestito in completo nero, camicia bianca e un cappotto trequarti scuro e mi sento abbastanza all'altezza della situazione. La signora madre è una piccola madre-regina: minuta, un po' curva e con un tono di voce gentile, anche se parca di sorrisi.
Quando entriamo nel giardino della gran villa c'è una folla autorità e "gente che conta" dispersa in vari capannelli attorno a discreti stand di cibarie allestiti come riproduzioni di casette in legno stile Far West. La regina, in completo azzurro carta e cappellino a forma di torta del medesimo colore, è preceduta da uno snauzer gigante a pelo lungo, che teniamo prudentemente al guinzaglio. Sottovoce mi chiede se tutta la situazione non sia eccessivamente formale. Le rispondo sinceramete di sì e lei se ne rattrista con un'espressione di finta sofferenza che mi fa sorridere.
Infine arriviamo a un gruppo di conoscenti, forse gli ospiti della serata. Ma non c'è tempo per i convenevoli: un altro grande cane, stessa razza del nostro si staglia a fianco dei signori in smoking e delle signore in abito da sera con braccia nude e spalline luccicanti. I due cani si fronteggiano, si fissano. Poi la tensione viene rotta da un lamentoso uggiolio. Il nostro gigante si rifugia sotto una veranda. Più che impaurito pare in attesa.

Non so perché ho deciso di andare in questo centro commerciale nella notte bianca della sua inaugurazione. Forse perchè mi sentivo fuori posto al party delle teste coronate? O più facilmente non ero ammesso? Mi preme soprattutto tornare là in tempo perchè mi ero impegnato ad riaccompagnare la famiglia a casa. Così vago per questi spazi ombrosi e chic, corridoi completamente pavimentati di parquet, negozi open space con luci soffuse e pareti e soffitti neri. Solo la merce è illuminata da nastri al neon. Prevale ovunque un marrone color ruggine.
Fuori si intuisce il brutto tempo: nuvole di vapore si sfilacciano davanti a vetrate tonde come grandì oblò. Anche gli spazi interni sono curvi, ho l'impressione che l'intero edificio all'esterno appaia come un'enorme zuccheriera. Gli uffici invece sono illuminati a giorno, tutti in vista. Una conoscente mi indica un'agenzia senza insegna: è la sede di un imprenditore di punta. Dentro c'è la sua squadra: ridanciani giovanotti palestrati in camicie a maniche corte sdraiati su amache di pelle e acciaio che scherzano con le assistenti a beneficio dei passanti.

Ma il tempo stringe, devo tornare al party - perchè mi sono allontanato tanto? - l'orologio fa le 00.06. Torno al negozio d'abbigliamento per ritirare una bizzarra camicia-mantello estiva color blu elettrico. Il pacco sembra il faldone voluminoso di un progetto urbanistico. Rispetto al primo incontro il commesso - che ha l'aria di un barista skinhead ripulito dalle anfetamine - è meno affabile, mi tratta con fare sbrigativo indicandomi la merce pronta e lo scontrino su un tavolino di simil marmo nero che riflette le luci al neon. E' come se avesse scoperto qualcosa di me. Infatti quando raccolgo il pacco sotto ci trovo il mio blocchetto nero per gli appunti. Mi incammino pervaso da una sensazione di eleganza: indosso una sorta di sahariana, pantaloni leggermente scampanati e occhiali da sole fumè che s'appannano rendendo difficile l'orientamento in quel labirinto curvo.

Tanto che quando cerco di imboccare una sala oscura per raggiungere l'uscita so già che è la strada sbagliata. Incrocio sulla soglia un manager in completo sportivo che mi sfiora lanciandomi un'occhiata interrogativa, ma non arriva a spendere domande per me. Dentro c'è pochissima luce, soltanto lontani tavoli e divani sono illuminati dalle luci gialle di lampade a stelo e abat jour. Quasi vado a sbattere contro una signora in tailleur e capelli raccolti in un nero chignon. Il suo volto serio, irretito da rughe profonde ha l'aspetto di un fiero custode: è questo il cuore oscuro del centro commerciale. Prima che possa dirmi qualcosa mi scuso e giro i tacchi.

Appena guadagno il corridoio la musica in sottofondo si alza: gli schermi tv nel corridoio trasmettono il concerto inaugurale. Una voce di ragazza introduce il presentatore: sembra una versione blues di Gegè Telesforo, con capelli lunghi alla Kit Carson e un mento incoronato da una barba bizantina. Ma non sono convinto che sia lui, forse gli somiglia e basta. Poi si diffonde una canzone: è Shock the monkey di Peter Gabriel. Una versione con la parte vocale in risalto, quasi un gospel, ma molto sincopato. Tutti dovrebbero cantarla, mi dico, è questa la nostra canzone.

venerdì 11 maggio 2012

Il suo nome è Jimmy Olsen



Sono in ferie, ma ferie forzate. Lo si capisce dal periodo scelto, un cielo popolato da coltri di nuvole sopra una riviera umida e cementificata. Mentre parcheggio penso che potevo scegliere un posto al sole garantito, un soggiorno in Mar Rosso. Ma ci sono già stato e non fa così caldo, è un deserto che sprofonda nel mare. Può piacere giusto ai russi che conoscono la steppa.


Scendendo dall'auto, oltre il vialetto alberato sento una ragazza che chiede informazioni a un passante. Ovviamente è lo stesso albergo dove ho prenotato io. E' come se precedesse i miei penseri a voce alta. Ma personalmente non sono così sicuro della mia destinazione quindi non metto becco. Mi colpisce l'indicazione di un negozio, forse un panettiere dal nome francese. Che sia la Costa azzurra?


Nella scena successiva sono in gruppo e vengo caricato da quelli che paiono pescatori convertiti al turismo su una barchetta da una quindicina di posti con tetto di tela a protezione del sole che non c'è. Sono un po' in ansia, le solite paranoie sulla salvezza del bagaglio e le procedure del check in alberghiero. Avrò fatto? Avrò fatto tutto? Avrò fatto tutto giusto?


Non riesco a godermi l'escursione, che si traduce in una serie di spruzzi d'acqua salata e strilli di bambini che trafiggono il rombo dei motori sfiancati in una altalena di accelerazioni e corte virate. Perchè in vacanza è obbligatorio divertirsi? Il mio silenzio reclama il diritto alla quiete, forse anche alla noia.


Dopo il giro in barca compiuto come una burocratica cerimonia di iniziazione mi ritrovo tra un capannello in costume da bagno che si riscalda attorno a una macchina che getta una colonna d'aria calda. Sono padri di famiglia e pensionati, ex professionisti, ex imprenditori, la gente che in vacanza riesce a commettere delle sciocchezze senza averne l'intenzione. Nonostante tutto siamo più rilassati e cominciamo a familiarizzare. C'è anche chi comincia a fare propositi di conquista sbirciando le donne del capannello accanto.


Lasciamo la veranda per entrare in quello che dovrebbe essere lo spogliatoio, invece troviamo una sala piena di cimeli di bronzo e poster impolverati. Ma non c'è tempo di esaminarli con attenzione perchè qualcuno richiama l'attenzione su un divano old style, con imbottiture di stoffa a fiori, roba da anni '20.


Appena arrivo una mano solleva un telo di cellophane rivelando un cadavere. Sembra una mummia: una testa rinsecchita che spunta dai resti di una sorta di divisa: un postino americano degli anni '40 oppure un inserviente d'ascensore da gran hotel. Sono certo d'averla già vista in qualche film in bianco e nero ambientato negli Usa.


"Ecco perchè ci hanno fatti arrivare qui", dice qualcuno. E io aggiungo che è uno strano modo per chiedere aiuto nella soluzione di un caso d'omicidio. L'intera faccenda non ha l'aria di un gioco di società perchè mi rendo conto che le persone che mi stanno attorno hanno le competenze necessarie a cogliere indizi e svolgere indagini: medici, chimici, esperti di balistica e psicologia. Tutti si aggirano per la scena del crimine sparando osservazioni e congetture come se qualcuno dovesse prendere appunti per dipanare la trama di un giallo.


Io mi concentro sul tavolino vicino al divano, un classico tavolo a gambe corte da party, che custodisce piatti e bicchieri sporchi abbandonati lì forse per decenni. E c'è qualcosa di curioso a pochi passi dal cadavere: una scatola da pizza bianca, sulla copertura tra decorazioni liberty si legge: Costume di Jimmy Olsen. Ma sono distratto da un'altra apparizione: dietro il divano, da sotto una sedia qualcuno estrae un teschio.


Le orbite del teschio però non sono vuote ci sono due lumini, forse luci a led di un costoso gadget macabro che apre uno squarcio sui gusti della vittima. Soltanto quando finisco la considerazione quegli spazi neri cominciano a illuminarsi di una luce crepitante. In cuor mio ho già deciso: accetterò il caso.


Illustrazione di Cneut da mostra Lucca 2011

mercoledì 14 marzo 2012

martedì 24 gennaio 2012

La fine dell'euro


Di prima mattina vado dal panettiere: quattro panini e due brioches. Fanno quattro e venti. Porgo sorridente la mia card ricaricabile. La commessa la prova sul lettore e fa una smorfia "Mi spiace, deve aver finito il credito". Rosso in volto esco e cerco un bancomat per ritirare i soldi.
Ma gli sportelli automatici non sono più abilitati alla riscossione, c'è stata la riforma. Niente più spiccioli in circolazione: è la formula per spegnere sul nascere la tentazione dell'evasione fiscale e tracciare ogni passaggio di denaro.
Allora vado in Posta per ricare la card: c'è la fila. Tante persone che sventolano i bollettini precompilati. Si può pagare via internet, ma chi si fida? E se capita una verifica, una contestazione, è sempre meglio avere in mano un pezzo di carta. Arriva il mio turno: vorrei ricaricare... ma nel portafogli scopro di avere soltanto tessere di supermercati e carte fedeltà. Altra figuraccia.
Mi decido allora a correre in banca: varco la bussola col fiatone. I promotori finanziari con le scrivanie vicine all'ingresso solitamente appiccicosi stavolta dribblano il mio sguardo. Comprensibile, i "fondi" azionari che mi hanno appioppato non si scollano dal "fondo" della Borsa.
Disturbo un cassiere dall'aria assonnata che controllando con lentezza da bradipo i miei dati al terminale lancia ipotesi tra l'allarmante e il catastrofico.
"Ma è sicuro di avere il conto da noi? Forse non le hanno accreditato lo stipendio. Lei è lavoratore dipendente, libero professionista o in cassa integrazione? Magari è un difetto del sistema: mi pare che non corrispondono i suoi codici di emissione. Ah, ecco il problema: il suo deposito non è stato convertito".
Io tentenno: "In che senso "convertito"?". Ma sì, sbadiglia il cassiere: è ancora in euro, ormai siamo passati allo yuan, lo sanno tutti. Io fisso attonito la card, quell'anonimo pezzo di plastica colorata non riporta nessun simbolo della valuta.
In effetti potrebbe rappresentare un credito in sterline, rubli o pacchetti di smarties. Mi sento preso in giro, vorrei gridarne quattro al cassiere, invece mi sveglio.
Era un sogno, anzi l'incubo della fine dell'euro. Ma per sicurezza subito controllo il portafogli: 30 euro e un paio di monetine. E naturalmente una card ricaricabile che manda sinistri riflessi.

foto: la moneta del futuro in tre diversi tagli: bio, bacato e marcio